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 2013  ottobre 05 Sabato calendario

PRIEBKE SI CONFESSA «PROVAI SOLLIEVO DOPO AVER SPARATO»


Ancora una volta l’or­mai centenario Eri­ch Priebke riemerge dalle tenebre del pas­sato. Lo fa con una intervista al quotidiano tedesco Süddeut­sche Zeitung .
Un’intervista che è anche una sorta di testamen­to. Le domande che queste sue parole sollecitano sono quelle di sempre, quelle che gli sono state poste per decenni, che noi ancora poniamo, che forse anche lui, nella casa romana ­sorvegliata dalla polizia - che lo ospita pone a se stesso.
Questo rottame, l’unico im­putato della sua età che sia agli arresti domiciliari, fu una bel­va assetata di sangue o fu un si­gn­or nessuno travolto dalla sto­ria? Il politicamente corretto non ha esitazioni nel dare la prima risposta. Questo ex capi­ta­no delle SS che partecipò atti­vamente alla spaventosa mat­tanza delle Fosse Ardeatine si è macchiato di un crimine im­perdonabile e imprescrittibi­le, ha messo ferocemente a morte degli innocenti in osse­quio agli ordini iniqui di un re­gime abbietto. Il boia per anto­nomasia fu, finché visse, il bie­co Kappler. Morto lui, il dub­bio onore di essere l’emblema del nazismo spetta a Priebke, fi­nito nelle mani della giustizia italiana grazie a una inchiesta di una televisione statunitense in quel di Bariloche (Argenti­na). Questione chiusa dun­que.
Io credo che il caso Priebke non sia così semplice, che ab­bia risvolti inquietanti. Non soltanto perché la rappresa­glia - ammessa dalle leggi di guerra - derivò da una strage, in via Rasella, di militari altoa­tesini, non soltanto perché gli altri ufficiali dipendenti dal co­lonnello Kappler, portati nel 1948 al giudizio di un Tribuna­le m­ilitare ita­liano, furono prosciolti per avere esegui­to ordini supe­riori, non sol­tanto per le procedure a dir poco disin­volte con cui si è arrivati al­l’ergastolo in­flitto a Priebke. Se­condo me campeggia in questa vicen­da una que­stione fonda­mentale. Dav­vero la socie­tà - e in parti­colare la società di quell’Italia che i suoi criminali di guerra li ha lestamente perdonati - ha il dovere di accanirsi contro un centenario? Davvero lui è più colpevole dei tanti assassini in libertà di cui le cronache ci rac­contano? La stampa e gli scher­mi televisivi ci inondano di di­chiarazioni, interventi, saggi, perfino libri che al terrorismo tributano stima se non ammi­razione. Soltanto Erich Priebke è il male assoluto?
Le parole di Priebke trascrit­ti dal giornale tedesco sono, ov­viamente, autodifensive. Affer­ma di non avere nostalgie nazi­ste, di essere lontano da con­vinzioni politiche, di aborrire le dittature«perché c’è sempre qualcuno che soffre». E poi, con rassegnazione, «una volta finita è finita». Finito il sangue, finita la guerra, le memorie ci assillano e le immagini di quan­do Priebke era giovane torna­no sugli schermi con tanto di croci uncinate e di campi di sterminio. Il sangue delle Arde­atine resta. «Per noi fu terribi­le. Non eravamo affatto dei ma­cellai. Kappler decise che gli uf­ficiali dovevano sparare per primi, fui sollevato dopo aver sparato due colpi, come la gran parte di noi. Un ufficiale non voleva sparare, allora Kap­pler gli disse “ascolta bene, se tu non spari dobbiamo fucilar­ti”. A quel punto abbiamo do­vuto sparare di nuovo tutti».
Ho qualche dubbio sulla to­tale veridicità di questi ricordi soprattutto per quanto riguar­da la riluttanza e le esitazioni delle SS, smaniose di vendica­re i caduti di via Rasella. Il co­mandante del Battaglione Bo­zen - quello decimato dall’at­tentato - si rifiutò di affidare ai suoi uomini compiti da boia. Le SS li accettarono. Erano, le SS, un prodotto del fanatismo hitleriano. Esito quindi ad at­tribuire loro perplessità uma­nitarie. Ma la furia di Kappler ­tutte le testimonianze lo con­fermano - era implacabile. Kappler fu nel 1948 condanna­to all’ergastolo non per la rap­presaglia, ma per avere ecce­duto nel numero delle vittime. Fosse stata rispettata la propor­zione di dieci trucidati per ogni soldato morto non ci sa­rebbe stato, pare, nulla da ridi­re.
Quegli ufficiali erano stati addestrati a comandare, a per­seguitare, a uccidere. Ma per loro, aizzati da un sistema per­verso, non ci può essere nessu­na indulgenza postuma, men­tre ce ne sono state innumere­voli per assassini che non ave­vano la giustificazione d’un fa­natico lavaggio del cervello? Priebke si aggrappa, non sen­za fondate ragioni, agli ordini superiori. «Mah, non avevo scelta. La mia vita è andata co­sì. Non sappiamo se Dio esiste, non sappiamo se esistono il Cielo e l’inferno. Sono convin­to che il Signore, se c’è, guida ogni persona a vivere così co­me vive ». La stessa argomenta­zione potrebbe essere utilizza­ta da ogni efferato delinquen­te.
Eppure ho per queste giusti­ficazioni di Priebke molto ri­spetto. È un Priebke pronto a render conto di ciò che ha fatto a Dio (sec’è). Gli mancano le espressioni di pentimento che vorremmo da lui per­ché rit­iene di avere sem­plicemente assecon­dato la sorte: «è an­data così ». A Barilo­che era un tran­quillo pensiona­to. Non accetta il ruolo di mostro, ma lo subisce quietamente.
Gli antifascisti e antinazisti puri e duri lo tengo­no d’occhio, per­ché non scappi (ma per gli agenti ha espressioni gra­te: «sono amici, per­sone davvero genti­li »). Il boia è sotto sor­veglianza, fino all’ulti­mo respiro. Giustizia è stata fatta.