Dario Di Vico, Corriere della Sera 25/9/2013, 25 settembre 2013
LE CINQUECENTO DONNE IN CODA E IL SOGNO DI FARE LA COMMESSA
Cinquecento donne che si mettono ordinatamente in fila per ore per conquistare a Genova uno dei tre posti da commessa annunciati dalla catena di abbigliamento «Tipinifini» fanno indubbiamente notizia. E diventano immediatamente una delle istantanee della Grande Crisi. Del resto la disoccupazione morde e uno stipendio da 1.100 euro fa giustamente gola anche a chi, un tempo, forse l’avrebbe snobbato. Le cronache raccontano come davanti alle vetrine del negozio si siano radunate donne di diversa età, ragazze in cerca del primo impiego e quarantenni che hanno perso il precedente lavoro, magari proprio da commessa. Qualcosa del genere, con code per le assunzioni, si era verificato qualche mese fa a Parma e a Gela, due situazioni estremamente diverse tra loro, accomunate dall’annuncio che McDonald’s cercava giovani per contratti part time e molto flessibili. Il commercio, quindi, si conferma a suo modo un settore che offre occupazione in virtù di nuovi punti vendita aperti dai grandi gruppi (Esselunga a Milano per esempio), per la tenuta che mostra la formula del franchising e per le ditte individuali che continuano a nascere.
Il lavoro da commessa presentava anch’esso un tasso di rotazione molto elevato, lo si teneva anche solo per qualche mese e poi lo si cambiava. Nei grandi magazzini il prolungamento dell’orario di apertura anche al sabato e alla domenica ha generato in passato qualche abbandono, oggi però i sindacati di categoria segnalano maggiore prudenza. Nei racconti delle ragazze in fila a Genova troviamo, infatti, i lavori e i mezzi-lavori più disparati, dall’addetta alle pulizie fino alla dog sitter, dalla guida turistica alla promoter di una compagnia telefonica. Molto meglio fare la commessa con un orario tutto sommato definito e un contratto nazionale di lavoro. Più in generale si può dire che sta prevalendo un atteggiamento pragmatico. L’ultimo numero di «Io donna» raccontava come delle giornaliste non abbiano disdegnato di offrirsi come «tate» ed è uscita di recente «La rivista della badante» che dà consigli e offre formazione anche alle ragazze italiane.
Tornando al commercio e alla sua straordinaria vitalità si calcola che in Italia ogni trimestre aprano circa 11 mila nuovi esercizi (a Milano più di 500), moltissimi purtroppo chiudono ma il settore si presenta con le porte girevoli e non solo con le serrande abbassate. La Confcommercio sostiene che il ricambio, quando non c’è, non è di pari qualità. Si spengono insegne storiche e collaudate e partono nuove attività spesso improvvisate, con un basso tasso di competenza e come forma di auto-impiego. Sarebbe interessante avere dei numeri precisi sulla vita media delle nuove iniziative, quanto tempo riescono a reggere l’urto della crisi. Non essendoci dati ci si può affidare solo alla fenomenologia spicciola e allora si può annotare come nelle vie del centro il turn over sia molto veloce. L’impressione, almeno visiva, è che un negozio cambi insegna e merceologia anche due volte in un anno. L’economista Enzo Rullani, molto attento ai temi del commercio, è però ottimista: «Non si può pensare che immediatamente le nuove iniziative producano innovazione e quindi abbiano maggiori probabilità di farcela. I neo-commercianti partono in maniera improvvisata ma imparano in corso d’opera. I piccoli sono fatti così, innovatori lo diventano». Quelle che mancano all’appello, secondo Rullani, sono le cooperative. «Come forma societaria di autoimpiego e di start up la cooperazione è perfetta e invece questo strumento, nella crisi che viviamo, non è ancora entrato in campo. Il mondo cooperativo purtroppo è rimasto fermo al ’900».