Cinzia Polino, il manifesto 17/8/2004, 17 agosto 2004
INTERVISTA A LUIGI PAGANO, EX DIRETTORE DEL CARCERE DI SAN VITTORE
Da tre mesi Luigi Pagano è provveditore regionale delle carceri lombarde. Il suo nuovo ufficio, in piazza Filangieri, è di fronte all’ingresso di San Vittore, che ha diretto per quindici anni.
Come si diventa direttore di un carcere?
Posso parlare in base alla mia personale esperienza: non per vocazione, ma per interesse al crimine e alla devianza. Avevo curiosità sul perché succedessero certe cose, e devo dire che a Napoli l’ambiente ti aiuta: in qualche modo o sei da una parte o dall’altra. Poi c’è tutta una tradizione di avvocati e di processi per cui si resta affascinati. Così, dopo il liceo scientifico mi sono iscritto a legge e mi sono laureato con una tesi in antropologia criminale. Una serie di segni o, per chi ci crede, il destino mi hanno portato con una certa inesorabilità a questo mestiere. Nel 1978, mentre seguivo il corso di specializzazione, Prima Linea ha ammazzato il professore con cui mi ero laureato, Alfredo Paolella, fautore della riforma penitenziaria del `75.
La mia tesi di specializzazione in criminologia era sulle misure alternative alla detenzione e sull’importanza del rapporto con l’esterno. Dopo il concorso, il primo istituto in cui sono capitato è stato quello di Pianosa, che nemmeno sulla cartina lo vedevi. Passo dopo passo sono arrivato a San Vittore.
Come ricorda l’esperienza a San Vittore?
Quest’esperienza mi ha inorgoglito parecchio, sia perché c’è stato un rapporto di fiducia da parte dell’amministrazione, sia perché sono stato accettato dai milanesi, io napoletano.
Il carcere di San Vittore nel bene e nel male è nel cuore dei milanesi.
Quali sono stati i momenti di particolare difficoltà?
Ogni secondo potrebbe essere un momento critico, questo vale per ogni istituto penitenziario.
San Vittore moltiplicava le criticità per 2400, tanti erano fino a due anni fa i detenuti.
L’impegno - non dico la capacità - degli operatori, direttore compreso, sta nel ridurre al minimo queste criticità, valutando in maniera oculata quali siano le più importanti da risolvere. Credo che sia quello previsto dalla Costituzione, vale a dire una pena dignitosa e rispettosa della personalità.
Tra i momenti brutti ricordo i vari suicidi.
L’ho sempre detto, senza voler sembrare né monotono né retorico.
Quanti suicidi ci sono stati a San Vittore nel periodo in cui era direttore?
La media era di due/tre all’anno, certe volte anche quattro. Ho il legittimo orgoglio, assieme agli operatori, d’aver riportato i suicidi a uno all’anno nell’ultimo biennio.
Anche quest’unico va eliminato.
L’ingresso è il momento più a rischio, anche se ci sono stati suicidi che non c’entravano niente con questo momento iniziale, in cui si fissa una sorta di inprinting che caratterizza tutta la detenzione.
Non sappiamo perché, ma è così.
Destando l’attenzione sul momento iniziale si raccoglie molto. Attenzione non significa «accarezzare» il detenuto, ma prestare attenzione ai suoi problemi.
Non dicendo sempre di sì, ma facendogli sapere che l’amministrazione, attraverso i suoi operatori, è presente e dà risposte certe.
Bisogna dire di sì ogniqualvolta non è legittimo dire di no, e comunque essere presenti.
Questo è quello che abbiamo cercato di fare, utilizzando non solo gli operatori e gli agenti, ma anche i volontari che accompagnano i detenuti appena arrivati per i primi sette/dieci giorni.
Non è paradossale dire che è un’«accoglienza», perché il carcere è un mondo estraneo, un mondo alieno, che chiude la porta all’esterno.
Può citare qualche cambiamento significativo a San Vittore?
Il ridimensionamento del terzo raggio che ora, dopo sette anni, può considerarsi un reparto d’eccellenza (detto con pudore, perché un carcere è sempre un carcere) degno di un paese civile.
Lo stesso si sta facendo per il quinto raggio, che sarà pronto in autunno e, come il terzo, sarà a numero chiuso.
Gli attuali 1400 detenuti sono sempre tanti, ma sicuramente si lavora molto meglio.
San Vittore chiuderà?
Sulla questione «carcere in città o fuori» io manterrei una posizione pragmatica, non farei delle battaglie ideologiche. Utopisticamente spero in una società senza carceri, ma se il carcere c’è, che funzioni.
Questo significa non soltanto fare in modo che i detenuti non scappino, ma che il carcere sia rispondente all’articolo 27 della Costituzione, che ci sia quindi una pena dignitosa per la persona cui si sottrae la libertà.
Penso a un carcere importante come servizio sociale.
Non un carcere fine a se stesso, che quindi si può dimenticare spostandolo in periferia.
Lo si può spostare per motivi funzionali, tenendo presente comunque che la sicurezza non è data dalla carcerazione in sé.
La mafia, per esempio, per molto tempo è riuscita a regolare i suoi affari anche dal carcere.
Il vero momento della sicurezza non è durante, ma dopo il carcere.
Il punto cruciale è riuscire a togliere la pericolosità al detenuto in modo che non commetta più reati.
Per togliere la pericolosità bisogna agire su quegli interventi di natura trattamentale che non sono un optional del detenuto, ma un interesse della società.
Se facciamo trascorrere il periodo di detenzione senza operare alcunché e senza offrire un’altra strada al detenuto, facciamo male a lui e buttiamo soldi dalla finestra.
Può fare degli esempi di trattamenti in cui viene coinvolta la società?
A San Vittore c’è il call center, realizzato grazie alla famiglia Moratti e al presidente della Telecom Tronchetti Provera.
Il telelavoro permette di lavorare con gli stessi standard dell’esterno.
A Opera una cooperativa di detenuti gestisce la formazione professionale all’esterno, sul posto di lavoro; sono conosciuti e apprezzati come scalpellini.
A Bollate recuperano i computer e stanno lavorando ad alcuni progetti per appaltare i servizi interni di vitto, sopravvitto e manutenzione ordinaria a cooperative di detenuti.
E’ necessario il coinvolgimento esterno perché la carcerazione dignitosa non basta, sarebbe un peccato sprecare un’occasione di reinserimento.
Qual è stato l’impatto dei detenuti stranieri?
Con gli stranieri si è stravolta l’essenza dell’ordinamento penitenziario del `75.
Quest’ultimo ragionava su un detenuto «tipicamente» italiano, dotato di famiglia e di alloggio, potenzialmente in grado di trovare lavoro.
La maggior parte dei detenuti stranieri non ha quasi nessuno di questi requisiti.
Come si fa a parlare di reinserimento sociale di una persona che deve essere espulsa, che non solo non ha una casa e un lavoro, ma neppure il permesso di soggiorno?
Da anni a San Vittore più della metà dei detenuti sono stranieri, quasi tutti irregolari, privi di documentazione di alcun tipo.
Esiste un circuito tra San Vittore e il Cpt di via Corelli?
Può esserci ma non è automatico.
Si può anche pensare che tutti i comportamenti irregolari possano essere puniti col carcere.
Ma il problema di fondo è proprio un altro: è quello della «irregolarità», della mancata integrazione nel circuito sociale. Le stesse espulsioni «penali» previste dalla Bossi-Fini, per svariati motivi, vengono eseguite raramente.
L’immigrazione è un problema complesso.
Non saprei come risolverlo.
Di certo, non con un’ottica meramente penale.
Se lei potesse riformare senza limiti il sistema penitenziario, cosa farebbe?
Con una buona dose di retorica, potrei dire che mi piacerebbe un mondo senza il male.
Ma poi immagino che sarebbe noioso.
Da un punto di vista pratico, la mia ricetta sta tutta in una parola: differenziare.
Abbiamo un sistema legislativo che dà risposte su tutto, il punto sta nell’applicarlo.
Sia la riforma del `75 sia le leggi Gozzini dell’86 prevedono che il carcere sia nell’angolo rispetto a tutto il sistema penale.
Il trattamento penitenziario deve sì risolvere il problema della pericolosità, ma non lo può fare soltanto intimidendo, oppure facendo passare il tempo.
Dobbiamo pensare a un intervento preventivo nella società. Per esempio, se il problema è quello della tossicodipendenza, prima di ristrutturare il carcere io penserei a incrementare i livelli dei servizi dell’Asl, poi magari delle comunità.
Lo stesso per quanto riguarda altri tipi di reati.
Quindi la prima domanda da farsi è:
è un comportamento penale?
Se sì, il carcere è la risposta più giusta o ne diamo una di tipo amministrativo?
Se pensiamo al carcere, che tipo di sanzione vogliamo adottare?
Ancora il carcere per tutto e per tutti, dal furto all’omicidio, oppure vogliamo diversificare le pene?
Si sta già mettendo mano al codice penale.
Col giudice di pace stiamo sperimentando la mediazione: non è la panacea, ma aumenta le misure a disposizione.
La legge del taglione corrispondeva a una società cruenta, però prevedeva pene diversificate: taglio della mano, decapitazione, esilio.
Oggi c’è il rischio di non diversificare, e questo comporta che sei costretto a usare la misura che probabilmente non è quella giusta.
Poi tutti concludono: sì è vero, sto utilizzando il carcere, ma non c’è niente di diverso.
Benissimo: discutiamo su qual è la misura migliore, col massimo pragmatismo.
Ha mai partecipato alle attività interne al carcere assieme ai detenuti?
A Pianosa, allora mi allenavo a livello agonistico, giocavo a calcio con loro.
Penso che il direttore non sia né l’educatore né il cappellano. Deve garantire una pena dignitosa, ma deve ricordarsi di essere anche carceriere.
Fingere che il momento detentivo non esista è pericoloso.