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 2013  settembre 09 Lunedì calendario

PASTICCIACCIO ALLA ROMANA

Ti devi estraniare. La regola è questa. Il tuo mestiere ti costringe a viaggiare nel dolore, ad attraversare sentieri lastricati da una ferocia che penseresti estranea all’essere umano. Tu sei lì, a te viene chiesto di cercare il colpevole, di fermare situazioni di violenza, di mettere fine a storie di aberrante sfruttamento di donne e finanche bambini, e non puoi emozionarti, non devi farlo. Ma un fatto è certo, dopo anni vissuti ad incontrare il male, a tuffarti dentro, qualcosa ti rimane e ti segna l’anima”. Roma africana, con l’asfalto che ribolle e l’aria che sembra paralizzata dall’afa, immobile, prigioniera della città.
Non si respira a via Merulana. Col poliziotto Raffaele Clemente, dirigente dell’Anticrimine della Questura di Roma, siamo sulle tracce di don Ciccio Ingravallo. Come lui “sbirro”, come lui emigrato dal Sud, come lui rappresentante dello Stato nella città eterna. Il 219 di quella strada di Roma che Carlo Emilio Gadda scelse per far vivere don Ciccio e l’umanità del suo Pasticciaccio, non esiste, è un negozio di stoffe, tappezzerie e cose varie. Quell’appartamento della Roma umbertina che nel romanzo era “una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione… il contrapposto netto del color di Roma”, forse lo si può trovare nel palazzo dove fa mostra di sé una targa in marmo: “A questa via e al-l’umanità vitale e dolente della Roma fra le due guerre si ispirò Carlo Emilio Gadda”.
Il mercato delle servette
Per il resto tutto qui è mutato. I volti della gente e finanche gli odori e i rumori. Afrori di Kebab, facce nere e occhi a mandorla, turisti con ventri americani, l’ombrellino per ripararsi dal sole e gli occhi fissi sulle bancarelle con “colossei” costruiti da sapienti mani cinesi. Il mercato di Piazza Vittorio, dove le “servette” della Roma di Gadda, ragazze dai capelli corvini e dalle cosce dure come il marmo strappate alle povertà delle campagne del-l’Abruzzo e dei Castelli, si recavano con le sporte, non espone più le sue mercanzie al-l’aperto. Ora i suoi banchi sono al coperto e le merci esposte devono soddisfare gusti e abitudini alimentari dell’Est Europa, dell’Africa, del Medioriente. Anche loro, gli “sbirri” sono cambiati. Don Ciccio “vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della sua collina molisana”. Il dottor Raffaele Clemente in polo avio, pantaloni di lino leggero, sneakers ai piedi.
“Estraniarsi”, ripete con una espressione che ricorda il miglior Ingravallo che ci piace immaginare col volto che Pietro Germi volle regalargli nella trasposizione cinematografica del romanzo. I suoi baffi, la faccia segnata da rughe, gli occhi nascosti dagli occhiali fumé che scrutano le miserie morali della piccola borghesia romana e quella materiale dei contadini dei Castelli nell’Italia tra le due guerre. “Un giorno - ci racconta Clemente - mi arrivò una telefonata che non dimenticherò mai. Un ragazzino di 14 anni aveva ammazzato il padre e la madre. Gli aveva sparato ed era scappato sul tetto”.
Prima la madre, uccisa e in un lago di sangue, la faccia schiacciata sul pavimento di quel-l’appartamento signorile dove viveva una famiglia destinata fino a quel momento a vivere una tranquilla vita borghese, poi il padre. Nel suo ufficio della Questura il poliziotto apre il computer e ci fa ascoltare la registrazione di una telefonata. Si sente la voce di un uomo terrorizzato che chiama il 118, ha visto sua moglie a terra coperta di sangue. Chiede aiuto. L’operatore gli chiede l’indirizzo, fa domande sulla condizione della donna, ma l’uomo al-l’improvviso si ferma. La registrazione ci rimanda le sue ultime parole: “Ma che fai Federico? Fermati. In nome di Dio fermati…”. Per un attimo tacciono le voci e sul nastro si imprimono solo i singhiozzi di un pianto, poi due colpi secchi di pistola. Pochi secondi e il telefono squilla di nuovo, è l’operatrice del 118. “Ci avete chiamato? Avete bisogno di aiuto? È successo qualcosa”. Risponde una voce fanciulla, limpida, bianca ma terribilmente calma, gelida. “No, non è successo niente. Grazie”. “Il ragazzo – continua il poliziotto – aveva problemi psichici molto forti, aveva tentato per due volte il suicidio ed era ossessionato dalla pulizia della mani che lavava in continuazione. Alternava ricoveri in clinica con dei periodi in casa. Aveva programmato lo sterminio della sua famiglia. Nell’appartamento c’era una pistola, lui sapeva dov’era nascosta e come prenderla, mentalmente si era esercitato ad usarla. Aveva pianificato tutto. Era fuggito sul tetto, armato, impaurito. Solo Dio sa quali pensieri gli tormentavano l’anima e la testa. Il volto era quello di un bambino. A noi il compito di evitare altre tragedie. Chiamai lo psichiatra che lo aveva in cura, gli dissi di parlargli, ma servì a poco. Feci andare a prendere una sua zia e la portai sul tetto con me. Lei gli disse di stare tranquillo che papà e mamma erano solo feriti, che tutto si sarebbe risolto e presto. Ma il ragazzo era lì, immobile, la pistola tra le mani e con altri colpi nel caricatore. C’erano i poliziotti appostati, i tiratori scelti, ma come fai? Non è un film americano, non puoi sparare a un ragazzino. E allora mi venne un’idea: dissi alla zia di sgridarlo, di fare la voce grossa, di rimproverarlo. Lei lo fece e all’improvviso quell’adolescente tormentato dalla follia tornò bambino abbassò gli occhi e lasciò andare la pistola, ci venne incontro e si affidò a noi. Fu ricoverato in ospedale. Era tutto finito, una storia come tante altre di ordinaria violenza. Qualche articolo in cronaca e vai al prossimo caso di nera. Qualche tempo dopo venni a sapere che si era suicidato”. Estraniarsi, ma basta una esperienza come questa a segnarti per sempre. Il poliziotto fa un sorriso amaro: “Eppure lo devi fare, altrimenti ti logori, ti bruci dentro”. Gli esperti la chiamano sindrome del burn out (letteralmente essere bruciati, esauriti, scoppiati) e colpisce chi ha scelto un lavoro con forti motivazioni sociali, infermieri, medici, religiosi, anche poliziotti. All’apice delle sue manifestazioni, la sindrome ti annulla, c’è una situazione di pericolo e tu non hai più forze, interesse per affrontarla, non ce la fai e non vorresti essere in quel luogo in quel momento della tua vita.
“Ma io - mi dice il dottor Clemente sorridendo - quello volevo fare nella mia vita”. La maturità classica a Caserta al classico “Pietro Giannone”, “il liceo della classe dirigente cittadina”. Le amicizie, gli amori, le illusioni di quegli anni e la passione per il teatro e la buona musica. “Beppe e Toni Servillo muovevano i loro primi passi, ricordo che ci si trovava tutti, noi ragazzi della città noiosa, davanti al garage dove provavano gli Avion Travel e al teatro dove Toni si esercitava nei suoi formidabili monologhi. La città ci stava stretta e almeno nove su dieci dei ragazzi di quegli anni avevano in testa un solo sogno: fuggire”. Poi la laurea in giurisprudenza. “E il tirocinio nello studio di un avvocato. Ricordo di aver assistito ad uno dei processi ad Ernesto Bardellino, clan dei casalesi. Eravamo in piena guerra di camorra, Cutolo contro tutte le altre famiglie, e in provincia di Caserta nasceva nel-l’indifferenza di tutti una camorra potentissima , quella dei casalesi. Mi sarei fatto tagliare un braccio per fare l’avvocato, figura che, forse in modo infantile, avevo idealizzato come il difensore dei deboli senza diritti. Ma non era così, in quegli anni in provincia di Caserta e in Campania, se volevi affermarti, fare i denari, avere uno studio nei palazzi migliori della città col contorno di segretarie e lussi, dovevi scegliere. Certo, tutti, anche i peggiori criminali, hanno diritto alla difesa, ma quell’ambiente non faceva per me. Non mi andava di mettere a i miei studi, i libri letti, le mie idealità, al servizio (dalle mie parti dicono a disposizione) dei criminali.
Per questo nel 1987 scelsi la Polizia, lo Stato, la collettività”. Nonostante “il magro onorario statale” di cui scrive Gadda. Un concorso vinto e poi la gavetta e la trafila dei trasferimenti. Milano alla Digos (il vecchio ufficio politico) nel periodo in cui il terrorismo nero e brigatista vive il suo epilogo. Poi a Roma a fare un corso di specializzazione per “negoziatori”, quelli che intervengono nelle situazione delicate dove la calibro nove va lasciata a casa perché devi parlare, trattare, negoziare col ragazzo che ha ucciso i genitori, con l’ex ufficiale dell’esercito che si è barricato sui tetti e spara, col rapitore che minaccia l’ostaggio. E di nuovo alla Questura della Capitale alla Digos ad occuparsi di gruppi neofascisti e di attività xenofobe. “Anche in questo tipo di lavoro ti devi estraniare, devi lasciare da parte le tue convinzioni politiche, archiviare i libri letti, perché non puoi considerare il ragazzo tatuato con i simboli del nazismo un tuo nemico. Ti devi relativizzare, quel ragazzo devi conoscerlo per capire. Ricordo un episodio del 1992, quando sui negozi di Roma gestiti da commercianti di fede ebraica un gruppo di estrema destra attaccò degli adesivi uguali a quelli messi dai nazisti nei ghetti. Scoppiò il finimondo, il ricordo delle Fosse Ardeatine e dei rastrellamenti è giustamente vivo e la reazione della Comunità ebraica fu durissima. Facemmo perquisizioni a tappeto e in ventiquattro ore scoprimmo che a fare quel gesto odioso, antistorico, terribile, erano stati dei ragazzi di Primavalle, periferia estrema di Roma. Erano dei bambini cresciuti male in case brutte, senza libri, in famiglie senza prospettive. Li osservavo, ascoltavo le loro risposte negli interrogatori, quella loro incapacità a mettere in fila due parole in un italiano che non fosse quel misto di romanesco imbastardito da uno slang duro, violento, offensivo, e capivo che erano dei bambini impauriti che avevano scelto di autoescludersi. Alcuni di loro li ho seguiti nel corso degli anni, qualcuno è cresciuto, si è trovato un lavoro e ha messo su una famiglia. Altri sono diventati rapinatori. Muoiono ammazzati, oppure entrano ed escono dal carcere”. Non solo case di squallide periferie ad aumentare l’odio verso il mondo, ma anche confortevoli appartamenti della piccola borghesia . “Ricordo quando dopo un raid dei neofascisti a Colle Oppio, con aggressioni e pestaggi agli extracomunitari di colore, facemmo delle perquisizioni nelle case degli estremisti di destra. Entrammo in un appartamento dell’Esquilino, papà impiegato, mamma insegnante, una famiglia tranquilla. I genitori erano piegati dalla vergogna, la polizia a casa loro, una cosa impensabile per gente perbene. In quel momento avevano messo a fuoco una verità durissima da accettare per un genitore: non conoscevano il loro unico figlio, non sapevano nulla di lui, non gli parlavano. Ora ho capito, mi disse il padre tra le lacrime, perché si è rasato i capelli, perché era sempre chiuso nella sua stanza, perché faceva tardi la sera”.
Nella polizia, per la collettività
Parliamo col dottor Clemente del passato e del futuro. “Ora il futuro è qui”, e mi mostra un computer. “Il crimine lo combatti anche così, voglio lavorare per aggiornare gli archivi, renderli veloci, accessibili, trasparenti. I tempi cambiano velocemente e anche la criminalità. Oggi la combatti sulla strada, ma anche nel mondo virtuale di internet. Sono questi i tempi in cui ci tocca vivere”. E mi mostra con orgoglio misto a tenerezza per quei suoi colleghi di un tempo andato, un vecchio archivio degli anni Cinquanta del secolo passato. Pagine ingiallite, con la grafia curata e i ghirigori per abbellire la scrittura. Don Ciccio Ingravallo per le sue inchieste sfogliava pagine così. Abbiamo girato mezza Roma, via Merulana e via San Vitale, la sede della Questura, ma il commissario immaginato da Gadda non l’abbiamo trovato. Roma invece c’è e il pasticciaccio pure. Perché è la città eterna ad essere un pasticciaccio brutto. Di lingue, culture, violenze, egoismi, odii e generosità. Miserie e splendori di questi anni difficili.