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 2013  settembre 09 Lunedì calendario

DA DOZZA A PETROSELLI GRANDI, NON PRIMEDONNE

I volti e i nomi sono immagini sgranate nella memoria internauta di oggi. Eppure hanno segnato epoche. Se i sindaci attuali hanno bisogno di un’esposizione mediatica permanente, le facce di Giuseppe Dozza, Giorgio La Pira, Luigi Petroselli sono state risucchiate dal tempo. Ma di loro restano i nomi, l’evocazione di una stagione che ha segnato il nostro paese.
Biografie diverse eppure vicinissime. Come i sindaci di Firenze e Bologna, il “santo” Giorgio La Pira, e “il comunista” Giuseppe Dozza. Il primo preferiva definirsi un “libero apostolo” di Gesù Cristo e ha governato Firenze dal 1951 al 1957 e poi, ancora, dal ‘61 al ‘64. Ancora oggi, lo stesso Renzi, lo porta in tasca, tanto ha segnato nel profondo l’identità fiorentina. Per quell’attaccamento agli “ultimi”, quel bisogno di interpretare il bisogno di emancipazione sociale e di riscossa, tipico del dopoguerra. Per quella capacità naturale di schierarsi, ad esempio, con gli operai del Nuovo Pignone, la cui fabbrica fu salvata, anche grazie al-l’interessato intervento di Enrico Mattei. Biografia sovrapponibile a quella del comunista doc che ha incarnato la rinascita di Bologna. Giuseppe Dozza, nato solo qualche anno prima di La Pira, fu antifascista integerrimo fino all’esilio. Poi, nel 1945, ricevette dal generale Hume le chiavi della città che ha governato per ben 21 anni. Lui, rigorosamente togliattiano ma in grado di fondare quel “modello emiliano” che guardava più alla socialdemocrazia del nord Europa che alla Russia di Stalin. A Mosca, invece, nel 1959, a parlare davanti al Soviet supremo, ci andò il cattolicissimo La Pira, non a caso soprannominato un “pesce rosso nell’acquasantiera”. Mentre Dozza, già malato, chiuse la propria carriera andando a ricevere alla stazione il cardinale Lercaro che tornava a Bologna dal Concilio Vaticano II. Prove antesignane di un compromesso storico costruito sul campo. Lo stesso che fece dire a Enzo Biagi che Dozza “è stato il simbolo di una tolleranza che ha evitato tanti dolori”.
QUELLA POLITICA derivava dalla mescolanza tra le necessità della ricostruzione e la cultura politica dei partiti, spesso seria e rigorosa, per formare amministratori degni del rispetto dei propri cittadini.
Un rispetto che ha caratterizzato il simbolo del rinascimento romano, Luigi Petroselli che appartiene alla generazione figlia del dopoguerra e che percorre la propria carriera politica tutta all’interno del partito, del Pci. Responsabile Stampa, poi Organizzazione, segretario di Viterbo, consigliere comunale e poi provinciale, fino al Comitato centrale, culmine della carriera comunista. Petroselli non è il primo sindaco Pci di Roma, prima di lui, nel 1976, è eletto Giulio Argan nella cui giunta nasce l’estate romana di Renato Nicolini. Ma è Petroselli a rappresentare l’anima di quella stagione. Diventa sindaco nel ‘79, quando il prestigioso critico si dimette e, purtroppo, morirà due anni dopo, nel 1981. Ma resterà il sindaco delle borgate, della luce e delle fogne portate a interi quartieri della città. Un altro dalla parte degli ultimi, attento a recepire gli umori popolari anche sull’onda del primo successo romano del Pci. Gl eredi di quella storia, Veltroni, Marino, Renzi, cercano ancora di intestarsene l’eredità. Ma è un ricordo fiacco, “spompato” senza spessore. Un altro che nelle radici popolari ha fondato una stagione e costruito una “connessione sentimentale” con la propria città è Diego Novelli, stessa generazione di Petroselli, sindaco di Torino dal 1975 al 1985. Dieci anni in cui ha vissuto la lunga vertenza ai cancelli della Fiat, quei 35 giorni in cui è stato sempre a fianco degli operai. Ancora una volta ritorna il legame con gli ultimi, il rigore etico, una vita politica decorosa e un progetto di organizzazione civica basato sulla programmazione, su un ruolo pesante e pensante dell’amministrazione. Novelli toccherà con mano la riconoscenza di Torino quando, nel 1993, rischierà di rifare il sindaco ottenendo il 46% al secondo turno delle comunali.
Tra i “grandi primi cittadini” va annoverato certamente Ernesto Nathan, sindaco “massone” e laico di Roma agli inizi del ‘900, protagonista del primo grande esperimento di bonifica civica. Milano può forse annoverare il partigiano Aldo Aniasi. Ci sono anche i sindaci di destra che hanno incarnato, però, un populismo viscerale e deteriore. Come Achille Lauro a Napoli, famoso per la scarpa regalata durante la campagna elettorale, promessa di un secondo esemplare in caso di successo. Lauro è un caso limite con il suo connotato fascista e monarchico. Ma è anche un antesignano.
A LUI SI È ISPIRATO Giancarlo Cito a Taranto e come lui ha ridotto alla bancarotta la propria città, lo stesso hanno fatto il medico di Berlusconi, Umberto Scapagnini, a Catania o Diego Cammarata a Palermo. Non è populista ma semplicemente mafioso , invece, Vito Ciancimino, non a caso riscattato dalle “mani pulite” del primo Leoluca Orlando che, grazie a quella stagione, è potuto tornare, in età più avanzata, a fare il sindaco.
La storia di destra è troppo spesso sinomino di “mani sulla città” o di “capitale corrotta, nazione infetta” come nel caso di Salvatore Rebecchini a Roma, il sindaco finora più longevo sotto il quale hanno prosperato i “palazzinari”. In anni più recenti potranno rivendicare un ruolo futuro sindaci come Gabriele Albertini oscurati però da figure minori come Gianni Alemanno o Letizia Moratti. I cui antesignani, in fondo, restano uomini come Pillitteri o Tognoli, simboli dell’Italia spazzata via da Tangentopoli. Ma neanche la stagione nata dopo il ‘93, è riuscita a eguagliare i simboli del passato. Basti guardare la fine di Antonio Bassolino o Francesco Rutelli. Quel passato si è chiuso all’inizio degli anni 80, quando è cominciato il medioevo italiano.