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 2013  settembre 08 Domenica calendario

ROBERTO HERLITZKA


Ha una singolare compostezza Roberto Herlitzka: cupa e ilare a un tempo. Il corpo magro — che mi ricorda quello di Edoardo Sanguineti — accenna un leggero angolo acuto, come se una contrazione o un dolore partendo dalla schiena si dirigesse sulla tragicità di un volto che affetta l’aria. «Qualche contrattempo fisico», commenta, mentre mi fa accomodare nello spazio di uno studiolo che si affaccia sulla terrazza romana, in una zona tranquilla del Salario dove Herlitzka vive con la moglie. Le piante, noto, si sono seccate: un disastro, dice, provocato da un guasto all’irrigazione automatica: «È bastato star via qualche giorno perché il caldo le riducesse a questo modo. Penso che bisogna prendersi cura personalmente delle cose che amiamo e lasciar meno spazio alla tecnica ». Sul tavolo il De Rerum Natura. Grande libro: sul quale farà prossimamente una lettura. «Un poema che abbraccia tutto, la scienza degli atomi e quella dell’anima. Lucrezio ebbe, lui sì, una visione globale del mondo».
E lei che visione ha?
«Mi limito al mio di mondo: il teatro in fondo è troppo grande per potermi occupare d’altro; e troppo piccolo per consentirmi di diventarne giudice. È una stranezza, per non dire peggio, che un attore per quanto famoso o bravo spieghi lucrezianamente come stanno le cose nel mondo».
A proposito di stranezze da dove viene il cognome “Herlitzka”?
«I miei antenati ebrei emigrarono dalla Boemia a Trieste. Il nonno paterno si trasferì a Torino, dove è nato mio padre. Sposò una donna non ebrea, dalla quale ebbe prima mio fratello e poi me. E alla fine, come una storia senza lieto fine, si separarono. Mio padre si unì a una ebrea e negli anni del fascismo fuggì in Argentina».
Fu un trauma per lei?
«No, avevo un anno. Restai con la mamma, che si chiamava Berruti, e ne presi, provvisoriamente il cognome. Durante la guerra sfollammo a Cogne, per me ancora oggi è un luogo mitico. L’infanzia adorna, come sa, di meraviglia anche le cose più tristi. Poi di nuovo a Torino, il liceo, qualche esame all’università e l’inquietudine di fare qualcos’altro».
Cosa?
«Volevo diventare un divo del cinema. Il mio idolo era Laurence Olivier. Un’ambizione così infantile si legava a un amore sfrenato per la poesia e la letteratura. Ma la scintilla si accese una sera che mi portarono ad assistere a un’operina del Settecento, con i cantanti che recitavano anche. E i miei occhi di ragazzo alla fine videro la compagnia che ringraziava sotto le luci della ribalta. Fu allora che dissi: voglio fare l’attore ».
Cosa l’aveva colpita?
«Non lo so. Fu una scena esteticamente bella. E pensare che a teatro non ho mai saputo ringraziare il pubblico. Le luci non le ho mai cercate e le ho sempre subite. Comunque, in quel momento la decisione fu presa».
E cosa fece?
«Nel frattempo mio padre, finita la guerra, era tornato in Italia. Decise di andare a vivere a Roma. E io a diciott’anni lo raggiunsi, andai a vivere con lui perché a Roma c’era l’Accademia di arte drammatica».
Suo padre di cosa si occupava?
«Era un signore piuttosto strano e affascinante. So che in Argentina aveva messo in piedi una distilleria e a Roma, invece, aprì una galleria d’arte: “Il Segno” che in seguito cedette per aprire in via Gregoriana la filiale della Marlboro. Ho conosciuto molti artisti: da D’Orazio a Vedova, da Henry Moore a Giacometti. Venivano spesso a casa e c’erano incontri, discussioni, feste. In quella Roma della fine degli anni Cinquanta, in quella città che ho solo sfiorato mentalmente ».
Come furono gli anni dell’Accademia?
«Intensi e proficui. Come maestro ebbi Orazio Costa. Era un uomo fascinoso, grandissimo insegnante e attore secondo me geniale. Un giorno, mentre recitavo nel San Francesco, guardai Costa che mi incitava a fare meglio e gli dissi: non posso andare oltre i miei limiti. E lui rispose: se non vai oltre i tuoi limiti, non conoscerai mai i tuoi limiti. Era dotato di una personalità schiacciante, forse l’ho anche subita. Per un certo tempo della mia carriera ne ho imitato lo stile».
Perché?
«Per suggestione. C’è una fase della nostra vita in cui ci rispecchiamo in qualcun altro che ci appare migliore».
Si chiama insicurezza.
«Sono stato molto insicuro. Per molti anni ho avvertito un senso di incertezza che, a volte, ancora dura. Mi dibattevo tra il desiderio di fare certe cose e la difficoltà di realizzarle».
Dubitava del suo talento?
«No, dubitavo delle mie qualità fisiche. Mi sentivo non inferiore agli altri, ma a me stesso. E mi rivolgevo con invidia a coloro che con molta più sicurezza affrontavano la vita del teatro».
A chi pensa?
«Non so, un nome certamente era Carmelo Bene».
La sicurezza non gli mancava.
«Rasentava la sfrontataggine. Facemmo assieme l’Accademia, anche se in corsi diversi. Volevano cacciarlo per le sue intemperanze. Orazio Costa si oppose. Ci frequentammo per un po’. La sera giravamo per qualche bar. Era un animale notturno. Poi lo persi di vista. Non avrei mai immaginato che sarebbe stato così fondamentale per il teatro. La mia, dopotutto, fu un invidia postuma».

Finita l’Accademia, che fa?
«Costa scrisse una lettera di presentazione a Strehler. Ma il mio rapporto con il Piccolo di Milano non fu facile. Strehler praticamente mi ignorò. Credo non apprezzasse la presenza di “corpi estranei”. Ciò non toglie che fosse un grande del teatro. Si diceva di lui che fosse un tipo umano poco generoso e autoreferenziale. Era semplicemente un divo. Con la vanità, gli sproloqui e il fascino di un divo».
Lei divo voleva diventarlo.
«Oh sì, fu la mia ambizione. Credo ci siano tanti modi di piacere. Rinunciai a quello apparente della bellezza. Mi spaventava dover essere bello e non esserlo».
Era solo un problema fisico?
«Era “il problema”. Ne ho sofferto molto. Non sono brutto, ma volevo essere bello. Da bambino lo ero e quando crescendo vidi che quella bellezza si era irrimediabilmente inquinata, avvertii grave il senso di una disfatta».
Eppure, il cinema l’ha adottata.
«Tardi. E io ho risposto. Il primo film che feci, giusto 40 anni fa, fu La villeggiatura di Marco Leto. Ho lavorato con esordienti e registi affermati. Pensando sempre alla validità del copione, all’importanza della storia, all’emblematicità dei personaggi. Non ho mai fatto film di consumo».
Se ne è pentito?
«No, apprezzo molto il cinema pensato ma non cervellotico ».
Qual è una differenza non scontata tra cinema e teatro?
«A teatro non si è tenuti a dare l’illusione della realtà. Nel cinema la realtà deve entrare nello spettatore. A teatro la realtà la proponi, al cinema la subisci».
Ha mai pensato di interpretare delle parti comiche?
«Come mai le viene in mente?».
Pensavo al ruolo di cardinale che lei interpreta nella Grande bellezza di Sorrentino. È un meraviglioso interprete comico; “Habemus coniglio!” una battuta esilarante e strepitosa.
«Nei miei spettacoli, soprattutto teatrali, non disdegno la parte comica, sono incline talvolta alla caricatura, al buffo, al grottesco».
E al travestimento, aggiungerei. Mi ha sorpreso le volte in cui ha vestito i panni femminili.
«Effettivamente ho interpretato diverse donne».
Con quella faccia un po’ così?
«Perché si scandalizza? Un musicista suona musiche di tanti generi, un attore non può interpretare un ruolo femminile? Del resto appartiene alla tradizione, alle origini stesse del teatro».
È vero, ma è come si dice: occorre le physique du rôle.
«Un attore, ricorda?, sperimenta i suoi limiti andando oltre ».
Quando glielo hanno proposto la prima volta?
«Ho accettato di corsa. Girai un film, Aria, poco visto ma molto apprezzato dove interpretavo un uomo che vuole essere una donna, fa una specie di coming out e la famiglia lo caccia. Come artista mi piace affrontare ruoli provocatori. Ma non farei mai, anche se me lo offrirono, la parte dell’omosessuale pacificato. Mi interessa la figura del perseguitato »
Contano in qualche modo le sue radici ebraiche?
«No, come le ho detto, mia madre era cattolica e mio padre tutt’altro che osservante. Non c’è nulla che mi solleciti in quel senso».
Cosa pensa della letteratura ebraica?
«Penso che abbia prodotto dei racconti meravigliosi ma a prescindere dalle sue radici. O, almeno, io ne prescindo. Non per ottusità e pregiudizio. Ma perché se una letteratura è grande lo è per il suo respiro universale. Non leggo Kafka o Roth in quanto ebrei, li leggo in quanto geni dello stile. Così come non amo Brecht perché è stato comunista o Bernhard perché odiava l’Austria».
Cos’è l’universale?
«È la voce che parla a tutti e a tutti dice qualcosa di profondo. L’ho sperimentato con Dante, Petrarca, con Lucrezio, e soprattutto con Shakespeare. Ogni sua opera è una gigantografia della realtà».
Lei porta spesso a teatro l’Ex Amleto. Perché “ex”?
«È uno spettacolo che mi diverte, nel quale faccio tutte le parti. “Ex” perché non ho più l’età per fare Amleto. Passano gli anni, occorre porre riparo al tempo che è un grande guastatore ».
Glielo hanno mai detto che la sua faccia è un po’ quella di Eduardo?
«Ah, il grande De Filippo! Un attore assoluto. Oggi sento dire in giro che Peppino era più bravo del fratello. Una bestemmia. Peppino era uno stupendo affabulatore del basso; Eduardo poteva toccare ogni corda. Era universale, appunto».
Cosa pensa della sua faccia?
«La mia faccia è la mia piccola storia. Essa parla di me con l’evidenza di un’impronta. Si dice che ognuno abbia la faccia che si merita. Non è vero. Mi spaventa pensare che ci sia un senso morale o etico dietro un volto. Non sarei stato un attore. Guardandomi, a volte, mi capita di pensare che sono nato vecchio e per questo sono rimasto bambino».
È un paradosso?
«Niente affatto. Voglio dire che in fondo non sono cambiato molto. Oggi mi accorgo di essere come allora. Sono, se vuole metterla su un piano più intimo, egotistico più che egocentrico. Tutto passa e io lì, in mezzo, che non cambio. Che resisto. Impassibile, come il nostromo di un vecchio veliero ».
E dove va questa sua barca?
«Chi lo sa. Le vele sono un po’ strappate e lo scafo ha qualche problema di tenuta. Ma, dopotutto, galleggia e si muove. Sono i princìpi della navigazione che somigliano a quelli della vita».
Sembrerebbe più un film.
«Anche. In fondo sono un divo mancato. Posso sempre sperare nel futuro».