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 2013  settembre 08 Domenica calendario

LEZIONE DI TENNIS

E allora non potei fare a meno di guardarlo. Come avevo fatto con oggetti di autentica meraviglia, il San Giovanni Battista di Caravaggio, la frase di Proust sulla Marchesa di Guermantes, lo stop al volo di un ormai decrepito Meazza. Quello che guardavo, con gli occhi di chi in fondo già capiva di essere uno spettatore, dotato della consapevolezza dell’ammirazione, era un ragazzino di sedici anni. Nel viso paffuto sotto i riccioli, nell’espressione concentrata e dolcemente impegnata dei bambini quando giocano.
Così come questa mattina di fine estate ci troviamo al Foro Italico, allora ci trovavamo su un campo del vecchio Tennis Parioli, nell’antica sede di viale Tiziano. Ero lì nella speranza di vincere un nuovo torneo di seconda categoria, un torneo che, a vent’anni compiuti, mi avrebbe avvicinato o ammesso all’agognata prima categoria. E quell’insolito avversario del secondo turno, ammesso forse perché figlio di un socio, perché raccomandato, mi aveva appena trafitto con un passante di rovescio come mai ne avevo visti, io che già avevo incontrati Gianni Cucelli e Marcello Del Bello, i nostri eroi di Coppa Davis. Un passante giocato dall’angolo sinistro, due metri fuori dal campo, a me che stavo a rete, ad aspettare una sicura, facilissima volée. Decisi di credere a un colpo di fortuna, ma già sapevo, in fondo, quel che sarebbe avvenuto cinque punti più tardi, nella medesima, identica circostanza. Avvenne, infatti, senza che il bambino mostrasse segni di sorpresa, o di entusiasmo, e fui costretto a rassegnarmi al fatto che avesse un talento ben superiore al mio, e che in un prossimo futuro mi avrebbe superato: oh, di quanto! Mi rassegnai dunque a vincere la mia banale partita rimanendo indietro a palleggiare, soprattutto sul diritto, meno pericoloso, e a stancarlo.
E così accadde, in un paio d’ore di banali ribattute e di corse, solo a tratti interrotte da uno di quei suoi rovesci iridescenti. Ma le sorprese non erano finite. Dopo avermi stretto la mano con un angelico sorriso, quasi la nostra fatica altro non fosse stata che un gioco, il bambino svicolò dal campo. Lasciata la sua unica racchetta in un angolo, lo vidi scavalcare una siepe, e affrettarsi verso il vicino rettangolo verde del campo della Lazio, dove fu accolto da grida gioiose di coetanei, e subito ammesso alla partitella degli Allievi, e rimproverato per il ritardo da un anziano allenatore.
Fu, quello, il mio primo incontro con Nicola, un amico che avrei rivisto centinaia, forse migliaia di volte, nella nostra lunga vita, e del quale il giornale mi ha chiesto un’intervista per celebrarne l’ottantesimo compleanno. Ci incontriamo davanti allo stadio del tennis che porta il suo nome, caso più unico che raro per un ex sportivo vivente, il campo sul quale ha vinto due Internazionali d’Italia: «Ho chiesto a Petrucci, ex presidente del Coni, perché non mi avesse intitolato invece del vecchio il nuovo campo centrale: “Perché il vecchio è monumento nazionale e nessuno lo può toccare, Nicola, quell’altro no...”. Per quel-l’altro c’è tempo».
L’intervista non è di quelle facili, come sempre accade quando il giornalista conosce troppo bene l’intervistato, tanto bene da aver rifiutato, anni addietro, di scriverne una biografia. Il lettore, certamente uno dei nostri, un aficionado, capirà quindi benissimo perché, in un simile ricordo, lo scriba abbia privilegiato un paio di flash a una scheda biografica che potrebbe comunque cominciare pressappoco così.
«Nasco a Tunisi da madre russa e padre italiano. Non l’ho mai detto a nessuno, ma avrei potuto farmi chiamare conte. I miei nonni russi erano nobili e poiché mia madre non aveva fratelli maschi trasmise il suo titolo a me. Sarei il conte Nicola Shirinsky Pietrangeli. Quanto al mio nonno paterno era tedesco e aveva la moglie svedese. Insomma, sono un bel bastardo. Durante la guerra i francesi ci cacciarono da Tunisi. Passammo la notte di Natale del ’46 su una nave per Marsiglia, come emigranti. Quando arrivai a Roma avevo tredici anni e diventai molto popolare a Piazza di Spagna. Ero “Er Francia”. Non capivo una parola di italiano, solo russo e francese. Poi il russo l’ho dimenticato, per imparare male l’italiano. Papà diventò rappresentate di Lacoste, dopo aver visto giocare Cucelli e Del Bello secondo lui con vestiti non adatti al tennis. Nei primi anni ’50 in un anno riuscì a vendere 280 mila magliette, ognuna costava 2.800 lire. Gli dissi: “Papà aggiungi cento lire in più per me”. Ma lui disse di no. Ho fatto i calcoli: mi sarei comprato quattro appartamenti».
Un altro flash. Dopo il primo, quello di un’intuizione non meno sicura che ovvia, me ne ritorna subito alla mente un secondo: la vittoria del Roland Garros del 1960, la seconda dopo quella del ’59. Pensate che, giovane inviato de Il Giorno, il mio amato direttore, Italo Pietra, non aveva ritenuto importante la trasferta dell’anno precedente, una vittoria contro il poco conosciuto sudafricano Vermaak, il cui serve and volley era stato sommerso dai passanti di Nicola. Questa volta dovetti tuttavia insistere, garantire verbalmente che una seconda vittoria sarebbe stata sicura, e mi assisi, unico giornalista italiano, nello stadio che già avevo visitato tre volte da mediocre giocatore.
Infine raggiungemmo — anzi, mi scuso — Nicola raggiunse la finale contro Ayala. Ero ottimista sul risultato, ma meno ottimista di me era il mio ospite, un genio chiamato Gil de Kermadec, già tennista francese del mio livello, segretario di Samuel Beckett tanto lucido da decidere di cessare di scrivere «perché è migliore lui», futuro factotum del tennis francese, inventore di una macchina cinematografica perché «i campioni si rendano conto dei loro punti deboli». Gil, che scriveva per Paris Presse, temeva che quel maratoneta presuntuoso del cileno riuscisse ad allungare la partita tanto da logorare il talento di un Nicola «troppo pigro per allenarsi alla corsa». Nicola era, tra l’altro, segretamente preoccupato per l’importanza di una vittoria, storicamente insolita, di un secondo Roland Garros, torneo Slam iniziato soltanto nel 1925, ultimo dei Big Four. Passavamo quindi la sera, per distrarci, in un ristorante vicinissimo al famose night club di Regine, una dama allora famosissima, delle cui amiche eravamo amici. Raccontarono, i giornalisti italiani assenti, che avessimo trascorso la serata ballando sfrenatamente sui tavoli, in preda all’alcool, mentre a mezzanotte salutammo e raggiungemmo le nostre abitazioni.
«Da Regine ci andavamo tutte le sere perché se non passavamo portava iella. Ma a mezzanotte a casa, e quanto al resto hai ragione tu: soltanto gossip». L’amico de Kermadec aveva, al solito, visto giusto. Invece che tentare, come i precedenti avversari, una partita d’attacco, Ayala cercò, sin dall’inizio, di logorare Nic. Rispondeva ai profondi rovesci del nostro con un malefico rovescetto avvelenato, ribatteva ai suoi dropshot con tocchi ancor più corti, insomma, come scrisse il grandissimo Antoine Blondin «non perdeva la ruota sull’Izoard». Erano, a quei tempi, almeno per un (ora ex) addetto ai lavori, accessibili gli spogliatoi. Ricordo di aver evitato ogni suggerimento come vidi il medico del torneo che, insieme alle calze, liberava Nic anche della pelle dei piedi. Quello che fu, più tardi, ritenuto un “campione snob”, uno che “avrebbe fatto meglio ad allenarsi”, dopo sofferenze degne di un martire riuscì ad allungare tanto da consentirsi una serie decisiva di winners nell’ultimo set.
«Finita la partita avevo i calzini rossi di sangue. Per due giorni sono andato in giro in ciabatte».
Per rimanere al Roland Garros, lo stadio che consacrò Pietrangeli numero uno mondiale sul rosso, è giusto ricordare l’anno seguente che condusse Nic vicinissimo — un set — da una tripletta sino ad allora mai realizzata. Fu probabilmente un eccesso di disinvoltura e insieme di umanità a privare Nicola del terzo titolo. Testimone e insieme amico, ricordo di aver palesato un timido dubbio quando mi informò di aver chiesto al giudice arbitro Ostertag, solitamente burocraticissimo, due giorni di libertà per tornare a casa.
«Susy, mia moglie, era incinta del nostro primo figlio. E allora io vado dal giudice e gli dico “parto!”. La domenica sono partito, mio figlio è nato e ancora oggi non so perché l’ho fatto ma sono rimasto a Roma altri tre giorni. Ritorno il giovedì e scopro che mi hanno aspettato: ero il più forte in quel momento».
Fin lì Nicola aveva dominato il torneo, e il suo avversario, lo spagnolo Santana, era sì promettentissimo, ma non ancora affermato come poi sarebbe divenuto. Inventore, sui campi rossi, di colpi liftati, Santana si impose, nel quarto e quinto, a un avversario che, secondo me, era mentalmente uscito dal torneo. Secondo Nicola, perché Santana era l’unico a credere di poterlo battere.
«Santana vince, io salto la rete ma dall’altra parte non trovo nessuno. Era passato sotto, emozionato. E mi disse che era passato sotto la rete perché era così che faceva quando era un povero raccattapalle. Lui piangeva e io ridevo».
Quel 1960 fu un anno capitale nella vita di Pietrangeli. Dopo il Roland Garros giunse Wimbledon, che la rapidissima erba dei tempi precludeva, per solito, a tennisti tipici della terra battuta. La semifinale contro Rod Laver finì tanto tardi, al quinto set, che mi costrinse, come accade nel giornalismo sportivo, a stilare due pezzi, nel primo dei quali Nicola vinceva il match, nel secondo lo perdeva. Mentre compitavo il secondo, maledicevo il primo game del quinto, in cui Nicola aveva servito male, e subìto un break che non riuscì mai a recuperare, nonostante lo scout della partita, nelle teche del Wimbledon Museum, ancora rechi una somma di punti a lui favorevoli. In finale, ad attendere uno dei due, già era pronto Neale Fraser, che poi vinse. Vecchio amico, partner di frequenti doppi a carriera finita, Neale fu spesso battuto da Nicola, come a Parigi nel 1959, e in più di una occasione ebbe a confidarmi che aveva temuto di fronteggiarlo in finale, a disagio com’era, lui mancino, nel confronto tra i reciproci rovesci.
Ma ho parlato di un anno capitale, per Nic. Fu, il 1960, quello delle Olimpiadi romane. Dopo le ultime affermazioni, Pietrangeli era stato considerato più che degno da Jack Kramer di far parte della sua troupe. Erano i tempi in cui i tennisti si dividevano in due gruppi di appartenenza. I professionisti, in grado di essere remunerati per le loro esibizioni, e i dilettanti, che per diletto avrebbero giocato i tornei tradizionali, e in realtà percepivano modesti guadagni in nero dagli organizzatori o dalle Federazioni. L’offerta di Kramer fu tale che, mentre Nicola avrebbe desiderato acquistare una Maserati, la moglie Susy preferiva un appartamento ai Parioli. Ma, una volta di più, finì per prevalere il cuore di Nic. Durante la cerimonia di apertura dei Giochi, cui entrambi presenziammo, Pietrangeli si commosse all’idea di un mondo che, per denaro, stava per svendere.
«Mi misi a piangere. Avevo fatto quella scelta, i professionisti li battevo tutti in allenamento, era l’unico modo per guadagnare qualcosa: e mi consideravano un fuorilegge». E, dopo ore difficili, telefonò a Tony Trabert, che rappresentava Kramer. Stracciò il contratto, e me ne diede notizia che non tardai a comunicare, nella mia cinica professione di autore di scoop. «Oggi i giovani non capirebbero».
Non fu quella l’unica occasione in cui un uomo nato a Tunisi, che avrebbe potuto rappresentare Tunisia o Francia in Coppa Davis, dimostrò amore per l’Italia. «A diciott’anni potei scegliere se avere il passaporto italiano oppure no, se giocare con la Francia o la Tunisia oppure no. Scelsi di stare qui, e non so se oggi lo rifarei».
Alla fine di una carriera che ancora lo vede come il giocatore mondiale con il maggior numero di presenze, 164, in Coppa Davis, (110 singoli e 54 doppi), Nicola, ormai capitano non giocatore di Davis, si ritrovò di fronte la metà di un Paese che la storia, anche recente, vede diviso nelle antiche fazioni di guelfi o ghibellini. Per la terza volta in finale di Davis (dopo le due perdute contro l’Australia proprio da Pietrangeli con il mio ex partner Sirola), l’Italia, avvantaggiata da un ritiro politico dell’Urss, si ritrovava nel 1976 favorita in finale, sempre fuori casa, con il Cile. Era, il Cile, vittima di una dittatura di destra, guidata dal Generale Pinochet, che aveva estromesso un governo condotto dal socialista Allende. Iniziò, allora, in Italia, una campagna disinformata quanto faziosa, campagna della quale fui io stesso oggetto, mentre sia Nicola che lo scriba, tutt’altro che pro-Pinochet, erano serenamente favorevoli alla sfida tennistica. Nicola fu minacciato, così come i quattro membri della squadra Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, da gruppi di quelli che osai definire “gli squadristi rossi”, uno dei quali si segnalò gettando macchine per scrivere dalla finestra di una Federtennis della quale sarebbe divenuto in seguito segretario. Il brillante cantautore Modugno (“Volare, oh oh”) divenne ancor più noto con due storici versi che assursero a slogan: “Non si giocano volée con il boia Pinochet”. Nicola resistette con felice pacatezza alle provocazioni e alle minacce, affermò — come Panatta — che avrebbero dovuto sequestrargli il passaporto per impedirgli la trasferta, e riuscì infine a convincere gli interessati pacifisti del governo Andreotti, e segretamente l’onesto incaricato del Pci, onorevole Pirastu, in favore dell’ostacolatissima partenza.
«Non mi sono mai occupato di politica, ma nel ’76 ero diventato popolarissimo, o impopolarissimo, in Italia solo perché ogni santo giorno cercavo di convincere tutti ad andare a giocare a Santiago. A me di Pinochet non me ne fregava nulla. Avevo la macchina della polizia sotto casa 24 ore su 24. Sotto le finestre mi urlavano “brutto fascista ammazziamo te e la tua famiglia”. Ma io insistevo. Andiamoci a Santiago, andiamoci perché sarà l’unica Coppa Davis che potremo portarci a casa. E cosi siamo partiti scortati dai carabinieri. Le stesse cose le sostenni contro gli Usa quando decisero di boicottare i giochi di Mosca del 1980, però in quel caso mi diedero tutti ragione... ».
Giunti in Cile, ci ritrovammo di fronte, nelle vesti di capitano, lo stesso Ayala che Nicola aveva superato al Roland Garros e, dopo aver apprezzato la sportività di un pubblico grato per la decisione della trasferta, una squadra che, come scrisse per primo lo scriba “era zoppa dalla gamba destra”, a causa di uno stiramento sofferto dal suo numero uno, Jaime Fillol. L’incontro fu quindi una passeggiata, complicata dalla reticenza politica di un nuovissimo presidente, l’avvocato Galgani, tanto che, al sorteggio, la squadra rifiutò di annodarsi la cravatta della Federtennis, e preferì quella celebrativa del Club dello Scriba, che Nic mi onora di portare anche oggi. Fu una facile vittoria, che rimane la nostra sola in Davis. Anche al ritorno il successo non ottenne i favori che avrebbe meritato, tanto che, priva di un luogo di sicuro deposito, la Coppa dovette trascorrere una notte in attesa tra le braccia di Nic, nella sua stanza da letto romana.
«Al ritorno ci accolsero a insulti: dovemmo scappare come ladri da un’uscita secondaria, roba da pazzi». Come premio di tutto ciò, dopo una sconfitta mal digerita della finale dell’anno seguente, a Sydney, Nicola si ritrovò licenziato da una squadra ingrata, e dal suo presidente Galgani, che avallò un colpo di stato condotto da un geloso direttore tecnico, Belardinelli.
«Parce sepulto» mi dice Pietrangeli, al termine di questo incontro che spero vedrete integralmente su Repubblica Tv. Un dialogo che ripercorre la sua vita certo meglio di questo scritto, e al termine del quale l’aficionado si domanderà perché non l’abbia scritto quel libro su Pietrangeli. Me l’ha chiesto un grosso editore, confesso, così com’è accaduto per altri tre miei famosi amici, ormai scomparsi. Ma sono convinto di non poter scrivere biografie su gente che ho conosciuto troppo bene. È, probabilmente, un limite professionale. Non certo umano.