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 2013  settembre 08 Domenica calendario

COSÌ DALL’AMBASCIATA FUGGIRONO I DISSIDENTI


Quella di Santiago era la mia prima sede estera. Entrato in diplomazia nel 1969, arrivai in Cile come Secondo Segretario nel dicembre 1971, pieno di curiosità per un Paese che attraversava una fase politica interessante e molto agitata, quella dell’esperimento di un socialismo democratico sotto la guida del presidente Allende.

Avevo meno di 30 anni, e arrivavo in Cile solo tre mesi dopo essermi sposato.

Cresciuto a Parma una provincia economicamente prospera, socialmente omogenea e radicalmente non violenta - improvvisamente, l’11 settembre 1973, mi toccò di essere testimone, e presto non solo testimone, di una catastrofe, per usare il vero significato etimologico di sconvolgimento radicale. Un palazzo presidenziale bombardato, un presidente che si uccide dopo avere resistito con le armi ai golpisti, il coprifuoco, gli arresti, le torture.

Del giorno del golpe ho ricordi molto forti, come accade per le vicende che ci colpiscono in modo traumatico. Ricordo soprattutto le radio: nelle prime ore del mattino, un notiziario straordinario sull’arrivo di Allende al palazzo della Moneda dopo che si erano diffuse notizie su movimenti di truppe, seguito da notizie sempre più concitate e drammatiche che confermavano il sollevamento militare. Poi la voce di Allende, in un messaggio che rivelava in modo inequivoco la decisione di non cadere prigioniero dei golpisti. Un commovente addio al popolo cileno. Poco dopo, sentimmo il rombo di aerei che volavano a bassa quota. Uscimmo fuori e vedemmo due cacciabombardieri in picchiata verso il palazzo presidenziale. Subito dopo, le esplosioni. Non passò molto tempo che le radio divennero una sola, e cominciarono a trasmettere sinistri bandi militari: proclamazione della «Giunta militare delle Forze Armate e Carabinieri»; elenchi di ricercati; coprifuoco.

Per oltre un anno, fino alla partenza nel novembre 1974, l’unica mia attività fu la «gestione» dei rifugiati in ambasciata, sotto la responsabilità e la guida di due incaricati d’affari, fino al gennaio 1974 Piero De Masi, e poi Tomaso De Vergottini. Da «Addetto commerciale» (questa era la qualifica con cui ero stato inviato in Cile), diventai una via di mezzo tra direttore di un collegio e funzionario dell’Alto Commissariato per i Rifugiati.

Sarebbe falso descrivere l’esperienza dell’asilo diplomatico nella sede dell’ambasciata d’Italia a Santiago in termini epici o eroici. Superato il rischio dell’ingresso, con il salto di un muro non troppo alto che circondava l’intero vasto perimetro della nostra residenza, prevalevano i prosaici problemi della quotidianità. Agli inizi, quando non immaginavamo ancora quali dimensioni avrebbe preso il fenomeno degli asilados , li ospitavamo negli scantinati, con materassi stesi al suolo. Ma ben presto l’intera residenza venne gradualmente a essere occupata dai nostri ospiti: stanze, stanzette e saloni diventarono dormitori. Eravamo pochi in ambasciata, e quindi l’organizzazione di questa occasionale comunità fu affidata ai responsabili dei singoli partiti politici. Il problema non era solo quello organizzativo (turni di pulizia, di cucina), ma soprattutto quello di un controllo su chi in realtà fossero quelli che si erano rifugiati da noi. Il timore di infiltrazioni era forte.

Le condizioni psicologiche erano variabili, e in qualche caso deteriorate, e questo influiva ovviamente sul clima della convivenza, non sempre idilliaca. I primi rifugiati, quelli entrati subito dopo il golpe, erano psicologicamente e fisicamente intatti, ma la seconda ondata comprendeva persone che erano state arrestate, spesso torturate, rilasciate, poi nuovamente ricercate, o che comunque vivevano sotto l’incubo di un nuovo arresto.

Potevamo contare su di un medico, un italo-cileno, Canio Loguercio, che prestò per mesi la sua opera gratuitamente, non certo sulla base di simpatie politiche (gli italo-cileni erano nella stragrande maggioranza anti-Allende), ma per una combinazione di amore per l’Italia, senso di umanità e dovere professionale.

Per alcuni l’amichevole reclusione nella nostra residenza durò qualche settimana, per altri un intero anno. Tutto dipendeva dalla concessione dei salvacondotti che ci venivano periodicamente rilasciati del ministero degli Esteri cileno. Erano momenti in cui dovevo dar prova di tutto l’autocontrollo tipico di un diplomatico: «Caro colonnello, quanti salvacondotti mi dà oggi? Eh, che lavoraccio…».

Una volta ottenuto il salvacondotto, i rifugiati potevano lasciare l’ambasciata e partire per l’Italia. Mi recai per una trentina di volte all’aeroporto. In qualche caso, se le partenze erano individuali o di un paio di persone, in macchina, ma più spesso con pulmini che affittavamo. All’alba, appena finito il coprifuoco, uscivano dal cancello e presentavano i salvacondotti ai militari, che numerosi, e con le armi puntate, controllavano l’operazione. C’erano momenti di tensione, soprattutto quando i partenti salutavano i compagni con il pugno chiuso o quando quelli che restavano li salutavano da dietro il cancello con il canto dell’ Internazionale .

Altri controlli all’arrivo all’aeroporto, poi accompagnavo i rifugiati fino alla scaletta dell’aereo. Era un momento di grande commozione. Spesso mi abbracciavano, sotto lo sguardo poco amichevole dei militari. Devo dire che in quel momento pensavo che fare il diplomatico era il mestiere più bello del mondo.

Quali sono state per me le «lezioni del Cile»? Molte sul piano politico: la fragilità della democrazia in presenza di contrapposizioni esasperate; gli effetti disastrosi di un’intransigenza irresponsabile in quanto stoltamente ignara delle conseguenze; il passaggio dalla totale negazione delle ragioni dell’avversario a quella dei suoi diritti come essere umano; l’effetto devastante della caduta delle regole del diritto, sostituite dalla pura violenza. E poi la facilità con cui persone «normali» e «civili» arrivano a giustificare il peggio nel momento in cui reagiscono alle proprie paure più che ai fatti.

Ma forse più importante, per me, è la lezione sull’imprevedibilità del comportamento umano. Posti in situazioni estreme, i coraggiosi possono diventare vigliacchi; i paurosi, coraggiosi. E infatti quel che più rimane nel ricordo è una specie di galleria di personaggi che in quella circostanza hanno dato il meglio di sé. Prima di tutti, il collega Piero De Masi, che al momento del golpe era incaricato d’affari in assenza dell’Ambasciatore, il quale al momento del golpe si trovava in Italia e non venne mai più inviato a Santiago, come risposta al non riconoscimento dei golpisti da parte dell’Italia democratica. De Masi, giunto a Santiago soltanto pochi mesi prima, aveva pochi anni più di me, ma ben presto, nel rapporto di amicizia che si era subito instaurato, si era incaricato di istruire bonariamente il più giovane e idealista collega, intransigente come tanti della sua generazione, sulle necessarie mediazioni e gli inevitabili compromessi della professione diplomatica.

Ebbene, quando il «realista» si trovò a dover prendere decisioni difficili per far fronte all’emergenza degli asilados , abbandonò ogni remora, ogni prudenza. Se un giorno gli storici decidessero di studiare il caso dell’ambasciata d’Italia a Santiago e l’asilo politico, troveranno con sorpresa negli archivi del ministero degli Esteri tanti messaggi da Santiago, e pochi da Roma, evidentemente perplessa di fronte a quel caso così anomalo: l’asilo diplomatico non è un istituto del diritto internazionale generale, ma soltanto una prassi riconosciuta e codificata in America Latina. Una prassi nella quale tuttavia la giunta cilena, anche se noi non eravamo latinoamericani, ci permise di rientrare. Ma farlo capire al ministero non fu facile, e non fu facile soprattutto ricevere istruzioni per la presentazione delle liste degli asilados , indispensabile per poi potere ottenere i salvacondotti per la loro partenza per l’Italia. E allora De Masi il prudente, De Masi il realista, fece quello che non credo gli sia mai stato perdonato: inviò a Roma dispacci telegrafici che iniziavano: «Salvo diverse istruzioni…».

Naturalmente le «diverse istruzioni» non arrivarono mai. Immaginate se qualcuno, nel 1973, con le forze politiche allora esistenti e un Paese profondamente solidale con la democrazia cilena, avrebbe potuto inviare istruzioni in senso contrario. Insomma, prese in contropiede il ministero, gli storse il braccio, per così dire.

Valeria Valentin, una suora altoatesina da molti anni in Cile, passava spesso dagli uffici, distanti dalla residenza, dove erano ospitati gli asilados , e mi lasciava pacchetti e lettere per loro. Insospettito, le chiesi come mai conoscesse tanti dei nostri ospiti, e dopo qualche resistenza lo ammise: li aveva accompagnati lei sotto il muro dell’ambasciata, aiutandoli a saltare. Quando le chiesi come mai li portasse tutti da noi, aggiungendo che era molto pericoloso, lei, incorreggibile e serena, replicò che era gente in pericolo («Che altro si può fare?») e che li accompagnava tutti da noi perché noi non li buttavamo fuori, e li trattavamo bene. «E poi sono italiana, no?».

Continuammo per mesi a (diciamo) collaborare. Scoprii dopo che lei, candida come una colomba e astuta come un serpente, come dice il Vangelo, non agiva da sola, ma era parte di un’organizzazione impegnata nel difendere i diritti umani contro la repressione, il «Comité pro paz» diretto da un vescovo ausiliare di Santiago, Ariztia.

E qui appare un’altra figura, quello dell’impiegato Cesare Rampioni, un romano che prima del golpe appariva una caricatura del pauroso. Gli bastava che in centro ci fossero manifestazioni con il lancio di lacrimogeni per dire che lui in quel Paese pericoloso, dove c’erano «rivoluzioni e terremoti», non ci voleva restare. Era lui che, nel quadro di un impegno quotidiano per i rifugiati, portava dentro i bambini degli asilados nella sua macchina privata, con manovre spericolate: apertura del cancello dall’interno, sterzata e accelerata per entrare sotto il naso dei militari, presi alla sprovvista. Anche lui, come suor Valeria, mi diceva, come per giustificare il proprio coraggio: «Ma che altro se può fa’, dottò?».

Me ne andai dal Cile nel novembre del 1974 dopo un tragico episodio. Una notte, durante il coprifuoco, il corpo di una giovane donna venne lanciato dentro l’ambasciata attraverso il muro di cinta. Si chiamava Lumi Videla, militante del Mir-Movimento della sinistra rivoluzionaria e moglie di un dirigente del movimento morto in uno scontro a fuoco con i militari, arrestata e morta sotto le torture della Dina, la polizia politica della giunta. In quei giorni reggevo io l’ambasciata, in assenza dell’incaricato d’affari De Vergottini che si trovava in viaggio nel Sud del Cile. Dovetti organizzare il prelievo del cadavere da parte della polizia criminale e fare denuncia alle autorità cilene.

Ma non mi limitai a questo. Immediatamente la stampa del regime (cioè l’unica esistente) cominciò a pubblicare articoli con titoli come: «Rifugiata nell’ambasciata d’Italia uccisa dai suoi compagni» (alcuni aggiungevano «nel corso di un’orgia»); «Fino a quando si tollererà lo scandalo del covo di estremisti protetti dall’Italia?». E allora non potei trattenermi dal mettere le cose in chiaro precisando che Lumi Videla non era mai stata rifugiata in ambasciata e che il suo corpo vi era stato buttato durante il coprifuoco. Si scatenò subito una campagna personale contro di me. I giornali scrivevano che avevo osato accusare i militari, gli unici che potessero circolare durante il coprifuoco, di essere assassini, e che piuttosto che un diplomatico, ero anch’io un militante di sinistra.

Avevo chiuso, evidentemente. Non si può fare i diplomatici in un Paese dove il regime ti considera un nemico – e con che faccia sarei andato da quel colonnello a chiedere altri salvacondotti? Chiesi io al ministero di essere richiamato.

Partii a metà novembre, pochi giorni dopo quella tragica notte, con mia moglie Francesca e con nostro figlio nato a Santiago nel maggio del 1972, e che avevamo voluto chiamare con il più comune dei nomi cileni, Manuel.


Roberto Toscano, ambasciatore in Iran dal 2003 al 2008 e in India fino al 2010, cominciò la carriera diplomatica nel ’71 a Santiago del Cile, dove rimase fino al ’74. Oggi è collaboratore della Stampa . Gli abbiamo chiesto di ricordare quei drammatici mesi.