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 2013  settembre 08 Domenica calendario

LE REGOLE DEL GIOCO DI PUTIN


Dal G20 di San Pietroburgo non è emerso nulla di concreto, o di promettente, di là di qualche tiepida e mimetica stretta di mano fra un enigmatico Vladimir Putin e un titubante Barack Obama.

In realtà il vertice è naufragato in un fiasco secco. Muro contro muro tra Mosca e Washington, con il rischio di un’irreparabile spaccatura della comunità internazionale sul tema dell’ora che è la Siria. Si direbbe che Damasco, nonostante la periferia martoriata dal massacro chimico del 21 agosto, o forse proprio per questo, sia stata quasi abbandonata a se stessa e al suo graduale autodissolvimento. L’America più che altro dà l’impressione di voler arginare per ora il peggio, non si sa come né quando, in attesa di un’incerta risposta del Congresso alle titubanti proposte interventiste del presidente Obama; nel frattempo la Russia diffonde l’impressione contraria di soffiare disinvoltamente sul fuoco, in attesa di un auspicabile arresto di una situazione protesa sull’orlo del baratro.

Putin, che oggi si presenta sulla scena più come scaltro nipote di Kruscev che come un erede di Gorbaciov, usa paragonarsi al presidente americano con un distacco algido e superbo: «Obama non è stato eletto per essere accondiscendente con i russi e lo stesso vale, a parti invertite, per me: siamo leader nazionali, non amici». Cioè, di fatto, avversari nelle faide più incandescenti della geopolitica mondiale. Non a caso, alla conclusione del vertice di San Pietroburgo, Putin ha addirittura minacciato undici Paesi, occidentali e occidentalizzanti, metà più uno dei convenuti, esclamando perentorio: «In caso di blitz la Russia aiuterà la Siria». La Siria, quale spartiacque in una rinnovata guerra fredda tra Oriente e Occidente. Una volta, tra Kennedy e Kruscev c’era Berlino; oggi, tra Obama e Putin c’è Damasco.

E’ infatti dalla crisi siriana che il principe del Cremlino, da qualche tempo, estrae con la scaltrezza di un consumato pokerista le carte di una politica insidiosamente contrapposta all’Occidente. Sembra favorirne le mosse, il caos, dilagante in quella tormentata regione, preda di guerriglie di fazione e di religione, e oggi per di più esposta al rischio suicida delle armi chimiche. La guerra avrebbe già causato in Siria 110 mila morti, più di quattro milioni di sfollati interni, e più di due milioni di rifugiati nei Paesi vicini. Il contagio, già serio per gli scontri ad armi convenzionali, ma aggravato dal possibile e reiterato uso di mezzi chimici, rischia di estendersi nella regione producendo conseguenze imprevedibili in altre parti del mondo. Non a caso la parola d’ordine «prayforpeace» è stata rilanciata, per l’ottava volta in questi giorni, da un Pontefice quanto mai allarmato da una situazione che già mette in seria difficoltà, soprattutto nel Medio Oriente, la convivenza fra religioni ed etnie diverse. Il temuto scontro di civiltà, deprecato a parole da ogni parte, è insomma presente o latente fra alauiti, sunniti, sciiti, cristiani dentro la Siria e intorno alla Siria. Il truce e spregiudicato Assad, protetto da Putin, si comporta con l’automatismo di un’intelligente mina vagante: non nasconde e già adopera i suoi arsenali tossici, esibisce i suoi intrighi con la Russia e con l’Iran, manifesta il suo atavico disprezzo per le democrazie occidentali. La politica più infigarda, più nichilista, del tanto peggio tanto meglio, sembra attagliarsi benissimo perfino al suo lungo e opaco volto di despota orientale.

Non sappiamo come andrà a finire. Non lo sa Obama che annaspa di qua e di là alla ricerca d’introvabili punti d’appoggio e di resistenza. Non l’Europa, incapace come al solito di esprimere una politica univoca, la quale, pressoché ignorata dalla Germania, sembra affidare ormai agli scatti di una Francia nervosa e permalosa il paravento di una difesa permeabile. E’ Putin colui che sembra conoscere, meglio di tanti altri, forse meglio di tutti, le regole del gioco nel mondo odierno. Il gioco perenne tra una pace calda e la guerra fredda. E’ lui, Putin, che sembra cadenzare, meglio di chiunque, il passo alla raccomandazione di Clausewitz per il quale la politica non era altro che la continuazione, con altri mezzi, dello scontro bellico sul campo.