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 2013  settembre 03 Martedì calendario

IL MIRAGGIO DI UNA SOLUZIONE DIPLOMATICA

Vigilia di pace o di guerra? È successo altre volte di vivere in anni recenti attese belliche sfibranti tra miraggi di soluzioni diplomatiche e illusioni di guerre lampo e definitive. Accadde tra l’invasione irachena del Kuwait nell’agosto del ’90 e l’attacco all’Iraq del gennaio ’91. Mesi di manovre internazionali che coinvolsero l’Onu e le principali potenze, con assidui pellegrinaggi dei mediatori a Baghdad, anticiparono la guerra del 2003 contro Saddam Hussein. Alle finestre furono esposte le bandiere arcobaleno della pace: soltanto in Italia, fu stimato, ne sventolavano un milione. Come è andata lo sapete. Anche allora Papa Wojtyla come oggi Bergoglio, che ha invitato a una veglia di pace anche i musulmani, parlò più volte e con voce ferma contro una nuova guerra.

La guerra del Kosovo contro il serbo Slobodan Milosevic del marzo ’99, innescata dalla strage di Racak, venne preceduta da un’intensa attività diplomatica che sfociò nel vertice di Rambouillet quando il segretario di Stato Usa Madeleine Albright strinse la mano al guerrigliero albanese dell’Uck Hisham Thaci.

Nel caso della Siria non ci sono mani da stringere, se non, in maniera pietosa, quelle delle migliaia di vittime di un conflitto dove si svolgono quattro o cinque guerre diverse, oltre a quella tra Assad e l’opposizione. Questo è un campo di battaglia complesso, ancora più dell’Iraq e diversamente dai Balcani è quasi impossibile disegnare confini, persino con i mezzi brutali e devastanti la pulizia etnico-settaria.

Tutto è cominciato nel marzo 2011 con una rivolta popolare contro Assad. E qui si consumò la prima illusione, che Damasco fosse un altro capitolo del risveglio arabo. Insieme ci fu un drammatico errore di valutazione degli alleati turchi e arabi dell’America: che Assad potesse dileguarsi in breve tempo come Ben Ali e Mubarak.

Una rispettabile protesta di popolo, repressa nel sangue, si è poi trasformata in una lotta settaria tra la maggioranza sunnita contro gli alauiti al potere e altre minoranze, come drusi e cristiani. Lo scontro è quindi diventato un conflitto regionale tra sunniti e sciiti, tra i Paesi arabi del Golfo e l’Iran che sostiene Assad. Una guerra per procura che rappresenta per i sunniti una sorta di rivincita sull’Iraq, dove con la caduta di Saddam sono finiti sotto un regime sciita. Si sono aggiunti nel tempo altri conflitti, come quello recente tra i curdi siriani e gli islamici di Al Qaeda e, all’interno dello schieramento sunnita, tra nazionalisti e i jihadisti stranieri, accorsi in massa dal mondo arabo-musulmano, dall’Asia centrale e persino dall’Europa a combattere contro il regime. In questa galassia l’Occidente non sa chi scegliere e rischia di favorire gruppi radicali ostili e incontrollabili.

Un attacco americano limitato non soltanto come ha già detto il Pentagono non risolve i problemi siriani ma può essere controproducente e avere un effetto domino imprevedibile.

La resa dei conti settaria in Siria è legata a uno scontro ancora più esteso e datato, originato dalla rivoluzione iraniana del ’79 che eliminò lo Shah, storico alleato Usa: si sono formati due fronti, uno che comprende Stati Uniti, Israele, Turchia, Arabia Saudita e alleati del Golfo, l’altro guidato da Teheran con Damasco e gli Hezbollah libanesi, il cosiddetto "asse della resistenza".

L’Iraq era un tempo una pedina di questo gioco: fu finanziato con 50 miliardi di dollari dai Paesi del Golfo e sostenuto dagli Stati Uniti per attaccare l’Iran di Khomeini nell’80 fino a quando Saddam sfuggì al controllo come altri strumenti manovrati dalle potenze in Medio Oriente.

Ma c’è un aspetto ancora più cruciale per il quale la Siria è un caso più inestricabile e bollente dell’Iraq, una sorta di polveriera che rischia di esplodere su scala mondiale. Assad non è isolato come Saddam Hussein negli anni 90 e Duemila, è in una posizione più forte di Milosevic in Serbia o di Gheddafi in Libia. Bashar oltre che sull’"asse della resistenza" può contare sulla Russia che dopo vent’anni di ritirate e umiliazioni non intende fare marcia indietro e accettare come in Libia un intervento militare umanitario. Rifiuta qualunque prova americana sui gas ed è decisa a mantenere una posizione di veto all’Onu.

Un diplomatico russo, alla vigilia del G-20 di San Pietroburgo, si dice convinto che l’incontro tra Obama e Putin ci sarà ma soltanto ai margini del vertice e forse durerà cinque minuti. Washington non intende fare aperture - sostiene la diplomazia di Mosca - e i russi, aggiungiamo noi, non sono in vena di concessioni. Per ora queste sono le posizioni mentre si accavallano notizie su aperture diplomatiche iraniane a Washington, sul ritorno degli ispettori Onu a Damasco, sui tentativi di provare a resuscitare un’iniziativa per un cessate il fuoco.

È in queste attese, segnate dal grafico delle quotazioni altalenanti della pace e della guerra, che si scorgono all’orizzonte i miraggi di miracolose soluzioni diplomatiche oppure si coltivano le illusioni di rapide e conclusive soluzioni militari.