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 2013  agosto 29 Giovedì calendario

FINE DEGLI AFFARI ITALIA-SIRIA ECCO QUANTO CI COSTA LA GUERRA

Dalla Libia in poi è stata una corsa al baratro. Fin qui siamo soprav­vissuti, ma l’intervento in Siria rischia di paralizzare gli scam­bi commerciali con il Medio­riente e trascinare al collasso l’Italia e la sua economia. E mentre noi andiamo in malora Francia, Turchia, Cina e Qatar aspettano solo di prendere il nostro posto. Per capire perché soffriamo e quanto rischiamo basta fare un passo indietro al 15 novem­bre 2011 quando l’Unione Eu­ropea vieta ai paesi membri di acquistare, importare o trasportare greggio e pro­dotti petrolife­ri siriani. La principale vit­tima di quel primo embar­go è l’Italia. Fi­no a quel momento la metà dei 110.521 barili di petrolio espor­tati giornalmente dalla Siria viaggiano verso i porti italiani e vengono raffinati da Eni, Saras e Italiana Energia e Servizi Spa. A quei 55mila barili di greggio giornalieri si aggiungono prodotti bituminosi e altri derivati per un valore di circa 1,04 mi­liardi all’anno. Grazie a quel diktat Ue impostoci durante la transizione Berlusconi-Monti, cioè all’apice della crisi italia­na, le nostre aziende sono co­strette a un costoso riposiziona­mento. Un riposizionamento ancor più doloroso visto che i prodotti siriani rimpiazzavano i buchi di approvvigionamen­to frutto della crisi libica.
Il peggio arriva a giugno 2012 quando il governo Monti accet­ta le nuove sanzioni Ue che im­pongono di azzerare i rapporti economici e diplomatici con Damasco. Con quella capitola­zione l’Italia rinuncia ad un in­terscambio commerciale da 2,3 miliardi di euro, equamen­te divisi tra importazioni (1,13 miliardi di euro) ed esportazio­ni (1,16 miliardi di euro). E ri­nuncia pure al ruolo di princi­pale partner economico euro­peo e di terzo partner mon­diale (dopo Ci­na e Arabia Saudita) ac­quisito grazie agli accordi bi­laterali siglati da Bashar As­sad e Silvio Berlusconi nel vertice del 20 febbraio 2002. Grazie a que­gli accordi l’Italia giocava un ruolo da protagonista nel­l’estrazione del petrolio e delle materie prime e garantiva alle proprie aziende ruoli di primo piano nella realizzazione di in­frastrutture collegate.
La Saipem, ad esempio, pre­vedeva di chiudere nel 2012 una commessa da 94 milioni di euro per la realizzazione degli impianti del pozzo petrolifero di Khurbet East. In Siria però il «made in Italy» spazzava ben ol­tre gli idrocarburi. Nel 2010 i prodotti alimentari garantiva­no alle nostre aziende un fattu­rato da 13 milioni di euro. E al­tri 5 milioni e mezzo di euro en­travano grazie alle esportazio­ni di abbigliamento. Un inter­vento e un cambio di regime ol­tre a far svanire definitivamen­te quelle entrate ci preclude­ra­nno anche eventuali compar­tecipazioni in un settore ener­getico tutto da sviluppare. Da­vanti alle coste siriane arriva una porzione del cosiddetto Ba­cino del Levante un giacimen­to di gas esteso sotto le acque di Siria, Israele e Libano conside­rato - grazie ai suoi 3,4 trilioni di metri cubici di gas e ad oltre 1,7 miliardi di barili di petrolio - una delle più importanti riser­ve del mondo. A prenderseli, a guerra fatta, ci penseranno la Bp inglese e la Total francese ol­tre al Qatar, la Turchia,l’Arabia Saudita e gli altri paesi che foraggiano con armi e munizioni le fazioni della rivolta islami­sta.
La difficile partita dell’Italia non si ferma però alle porte di Damasco. L’intervento in Siria con tutta probabilità trascinerà alla guerra civile anche il Li­bano, un altro partner fonda­mentale per la nostra econo­mia. Grazie a una costante cre­scita delle esportazioni salite nel 2012 ad 1,83 miliardi di dol­lari l’Italia è diventata il terzo partner commerciale del pae­se dei Cedri dopo Stati Uniti e Cina superando di un bel po’ Francia e Germania. Ma la guer­ra a Damasco rischia di coinvol­gere anche Iran e Russia mettendo in crisi altri due mercati fondamentali per i nostri scam­bi commerciali e trascinando l’Italia al definitivo tracollo.