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 2013  agosto 26 Lunedì calendario

DAI MARO’ AL PASTICCIO KAZAKO LA BONINO COLLEZIONA SOLO FLOP

Messa di fronte alla sua grande occasione, nel­la piena maturità dei suoi sessantacinque anni, Em­ma Bonino delude. Titolare del ministero degli Esteri, respon­sabile dell’immagine italiana nel mondo, Emma ricalca le mediocri prestazioni dei due immediati predecessori, Giu­lio Terzi di Sant’Agata e Franco Frattini. Di Sant’Agata ha le tre­mebonde incertezze, di Fratti­ni la spocchia verbale e la men­talità gregaria verso gli Alleati più forti. Nella faccenda dei due marò, malamente pasticciata da Giu­lio Terzi, siamo lì dove l’ha la­sciata lui. Dal lato diplomatico, nulla di rilevante è stato fatto da quando alla Farnesina c’è Bonino. Ci si è rassegnati ai ca­pricci indiani, scanditi da piog­ge e monsoni, anziché interna­zionalizzare il caso denuncian­do le tropicali lentezze di Nuo­va Delhi. Ogni quindici giorni, Emma dice qualcosa sui due fu­cilieri - per esempio che stanno bene - , aggiungendo che fra Ita­lia e India c’è perfetta identità di vedute, ma senza specificare quali per non dare luogo a sber­leffi. Chiarito che lei non ha scordato i prigionieri, ripiom­ba nel letargo di iniziative con­crete per due settimane, tra­scorse le quali, riparla di loro, dicendo nulla. Intanto, anche il fiocco giallo del Giornale, che doveva servire da sprone, sem­bra ormai un insetto impigliato nella rete delle incompetenze governative. Neppure è uscita bene dalla rocambolesca faccenda del rimpatrio violento della ka­zaka Alma Shalabayeva e bim­ba, nonostante fossero in gioco i «diritti umani» che sono il for­te di Bonino. Ammettiamo che il 31 maggio (giorno clou del fat­taccio), come ha detto il pre­mier Letta, il governo fosse al­l’oscuro di tutto. È un fatto, pe­rò, che ventiquattro ore dopo i ministri erano informati. Noi invece abbiamo dovuto aspet­tare metà luglio. Ci sarebbe già da chiedersi le ragioni di tanto ritardo ma ciò che colpisce è che, dopo il lungo silenzio, è partita un’ammuina in cui Bo­nino si è distinta più di chiun­que.
Il ministro si è mosso su due piani. Il primo è stato accertare le condizioni di Shalabayeva e figlia ad Astana (capitale ka­zaka). Si è tenuta freneticamen­te in contatto con la nostra ambasciata, dando l’impressione di metterci l’anima. Il tutto con furia, come se i fatti fossero ap­pena accaduti e non vecchi di cinquanta giorni. A questo pun­to, le autorità locali hanno di­chiarato che le due potevano tornare a Roma, purché l’Italia ne garantisse la reperibilità. Era il trionfo di Emma che rag­giungeva lo scopo di tutelare i «diritti umani» e attenuare la figuraccia dell’espulsione. E lei che ti fa? Ignora la proposta ka­zaka e molla le due ad Astana, poiché in Italia la vicenda si era ormai sgonfiata. L’altra pensa­ta boniniana - dare addosso al­l’ambasciatore kazako, reo di avere imbambolato le autorità italiane per intrappolare Shala­bayeva - prese presto la stessa piega. Prima denunciò le inge­renze e prevaricazioni del di­plomatico, facendo intendere che poteva espellerlo. Poi, lo convocò d’urgenza.Ma poiché erano passati cinquanta giorni dalla faccenda, l’urgenza suo­nava ridicola. Per di più, essen­do l’ambasciatore partito per le ferie in Kazakistan, la convoca­zione precipitò comicamente nel vuoto. Così, la vicenda finì nel dimenticatoio e l’imperizia di Emma tra le cose da ricorda­re.
Negli stessi giorni dello scan­dalo kazako, a Panama venne arrestato l’agente Cia, Robert Lady, condannato dal Tribuna­le di Mila­no a nove anni per il ra­pimento di Abu Omar. Il nostro Guardasigilli, Cancellieri, chie­se subito l’estradizione ma la Cia, impipandosene totalmen­te, si riprese il suo uomo dai pa­namensi e lo trasferì in Usa, sot­traendolo all’italica giustizia. Meglio per lui, ovviamente. Ma questo posso dirlo io. Lei, mini­stro degli Esteri, avrebbe come minimo dovuto convocare l’ambasciatore Usa e dirgliene quattro. Bonino si è, invece, gi­rata dall’altra parte, felice di non avere grane con i temibili yankee. 
Infine, in agosto, Emma si è illustrata da par suo nella mat­tanza egiziana. Forte di un lun­go soggiorno di studio in Egitto all’inizio del Duemila e col to­no dell’esperta, inneggiò due anni fa alla «primavera» egizia, garantendo che la cacciata di Mubarak era l’inizio dell’Eden. In seguito, invece di ravvedersi per la piega islamista dei Fratel­li musulmani, ha pontificato su­gli errori dei militari cairoti e, al­la vigilia del recente summit Ue a Bruxelles, ha detto che eventuali sanzioni economiche sa­rebbero blande e inutili. «Pro­porrò invece il blocco delle ar­mi all’esercito », proclamò in tv la sera. Nella riunione dell’in­domani, ammesso che abbia parlato, nessuno le dette retta e l’Ue decise per le sanzioni eco­nomiche. Finito il vertice, Boni­no, immemore di sé, si dichiarò perfettamente soddisfatta.
 Di origini contadine come Giovanna d’Arco e piemontese di Bra, la radicale Bonino ha sempre avuto la passione delle lingue, viatico dei suoi interes­si mondialistici. Dopo gli esor­di nel partito di Pannella con gli aborti, il divorzio, lo spinello li­bero, ecc. che la portarono alla Camera ventottenne, nel 1976, Emma, da trentasette anni, non è mai scesa di serpa: sette legislature al Parlamento italia­no, quattro in quello Ue, com­missario Ue dal 1995 al 1999, mi­nistro delle Politiche comunita­rie con Prodi, ora agli Esteri. I suoi fan dicono che è tutto stra­meritato. Un’analisi meticolosa, farebbe emergere dubbi. Co­me quando dovette dimettersi con tutta la Commissione Ue nel 1999 (c’era anche Mario Monti) per brogli di altri ma om­bre varie che riguardavano lei.
 È proprio come commissario Ue che conobbe il suo secondo mentore, dopo Pannella, il di­scusso ultramiliardario ameri­cano di ceppo ungherese, Geor­ge Soros. Costui, per salvarsi l’anima, fa anche beneficenza ma essenzialmente per pro­muovere la «società aperta», in opposizione agli Stati e ai nazio­nalismi. Dovunque ci sia una crisi, con la possibilità di scardi­nare tutto, c’è lui. Fu così che Emma e George si incontraro­no a metà degli anni Novanta quando stava saltando la Jugo­slavia. Soros si iscrisse ai radica­li, ne divenne finanziatore e, solleticandone gli umori, trascinò il partito a tifare per l’oscena guerra alla Serbia. Un’altra idio­zia da attribuire alla coppia, in quegli anni unitissima, è la Cor­te penale dell’Aja per i crimini di guerra. I due erano insieme alla Conferenza di Dakar che ne anticipò l’istituzione. Il Tri­bunale è un bluff poiché gli Usa, il Paese più in armi che ci sia, non lo riconosce anche se lo incita ad appioppare ergasto­li ai propri nemici. Un assurdo. Al dunque, la Corte se l’è presa solo con Milosevic e quattro gat­ti ex jugoslavi. Da allora, è in ca­talessi e spilla denari. Per quali meriti, dunque, Bonino guida gli Esteri?