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 2013  agosto 26 Lunedì calendario

LA GRANDE FARSA DELLO SPREAD: AI MINIMI, MA E’ SEMPRE CRISI

Agosto è sempre un mese di riflessione. Due anni fa, nel 2011, proprio al­l’i­nizio di agosto ci veniva recapi­tata la lettera della Banca centra­le europea, cui il governo Berlu­sconi rispondeva con una imme­diata manovra da 60 miliardi di euro (cumulati dal 2011 al 2014), che avrebbe consentito al no­stro paese di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. I mer­cati, tuttavia, non dimostrarono particolare interesse agli sforzi compiuti dall’Italia in quel fran­gente, perché lo spread tra i no­stri titoli di Stato e gli equivalenti titoli tedeschi continuò a segui­re un andamento che prescinde­va dalla politica economica na­zionale. A novembre 2011, dopo mille pressioni, lecite e illecite, sul governo Berlusconi, legittimamente eletto, arrivò, senza al­cun passaggio elettorale, il gover­no Monti. Il tutto giustificato dall’emergenza. Ma ad agosto 2012 l’Italia non versava in condizio­ni migliori. Anzi, la recessione, il debito pubblico e la disoccupa­zione erano aumentati, e lo spread continuava a viaggiare a livelli altissimi (536 punti base il 24 luglio 2012), più alti dell’esta­te precedente (373 punti base il 5 agosto 2011), nonostante le mi­sure autodefinite «salvifiche» del governo dei tecnici del sena­tore a vita Mario Monti. Governo che godeva di una larga maggio­ranza in Parlamento. Anche di questo, evidentemente, ai mer­cati e allo spread interessava po­co. 
Arriviamo ad agosto 2013: checché ne dicano Saccoman­ni, Letta e compagnia cantante, l’economia italiana è ancora sfasciata, il debito continua a cre­scere e la disoccupazione pure. A ciò si aggiunge una grave crisi politica, istituzionale e democra­tica. Siamo sull’orlo di una crisi di governo e di nuove elezioni. Peggio di così? Ebbene, lo spread, in barba a tutto e a tutti, è tornato a livelli più bassi di 2 an­ni fa, sotto i 250 punti base.
Questo breve excursus si com­menta da solo: è l’ennesima dimostrazione, se ce ne fosse anco­ra bisogno, dell’imbroglio dello spread, che non dipende tanto da fattori interni agli Stati nazio­nali, bensì da variabili esogene: la debolezza delle istituzioni eu­ropee e il rischio di implosione della moneta unica in primis. Ne deriva che se oggi lo spread è bas­so non è perché siamo diventati più virtuosi (anzi, il governo è meno solido dell’anno scorso o di 2 anni fa), ma semplicemente perché la moneta unica è più for­te. O almeno sembra. Andiamo a vedere perché. E perché in Eu­ropa funziona diversamente da­gli Stati Uniti.
Ogni anno a fine agosto i ban­chieri centrali ed economisti di tutto il mondo si riuniscono a Jackson Hole, nel Wyoming, per l’ EconomicPolicy Symposium organizzato dalla Federal Reser­ve Bank di Kansas City. Pur nel­l’assenza del banchiere centra­le, i 3 giorni di dibattito, dal 22 al 24 agosto, si sono tutti concentra­ti sul­le prossime mosse della Fe­deral Reserve. In particolare: «to taper or not to taper?». Che signi­fica: la banca centrale america­na ridurrà i suoi acquisti di titoli sul mercato primario? E se sì, a cominciare da quando e a che rit­mo? (Il verbo «to taper» letteralmente significa «ridurre gradual­mente»). In realtà, il Consiglio di­rettivo della Federal Reserve ne discute già dallo scorso maggio, e dalla risposta che si darà a que­sto interrogativo dipende anche la nomina del prossimo presi­dente della Fed, alla scadenza del mandato di Ben Bernanke, a fine 2013. Non solo: a questo gli economisti riuniti a Jackson Ho­le, così come la direttrice del Fon­do Monetario Internazionale, Christine Lagarde, e il governato­re della Banca del Messico, Au­gustìn Carstens, attribuiscono il rallentamento della crescita e la crisi valutaria in atto nei paesi emergenti, i cosiddetti Brics: Bra­sile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Il boom degli ultimi anni in tali Stati è stato spesso legato all’afflusso di capitali stranieri grazie all’enorme massa di liqui­dità immessa dalle principali banche centrali mondiali. Liqui­dità che, a seguito dell’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato americani conseguente al possi­bile rallentamento della politica monetaria espansiva da parte della Fed, torna a dirigersi verso gli Usa, con relativo crollo delle valute locali dei Brics. 
Gli effetti delle politiche mone­tarie simili adottate da Stati Uniti e Europa, sono stati, però, differenti: negli Usa immediati, in Eu­ropa sempre sofferti. Le decisio­ni del presidente della Bce, Ma­rio Draghi, sono state messe in di­scussione, spesso e a prescinde­re, dalla Bundesbank, causa le ossessioni inflazionistiche della banca centrale tedesca. Con il risultato di delegittimare la Bce e di ridurre la portata degli inter­venti da essa messi in atto. È avve­nuto così con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità (anche noto come Fon­do «salva Stati»), sulla cui legitti­mità abbiamo dovuto attendere il verdetto della Corte Costituzio­nale tedesca lo scorso 12 settembre 2012. È avvenuto così per il programma di acquisto di titoli di Stato con vita residua fino a 3 anni da parte della Bce sul mer­cato secondario, annunciato dal presidente Draghi lo scorso 6 set­tembre 2012, a seguito del «fare­mo tutto quello che sarà necessa­rio per salvare l’euro» pronun­ciato a Londra il 26 luglio 2013. Ebbene, su questo programma di acquisti, il cui solo annuncio è bastato per raffreddare i mercati dall’estate 2012 in poi,si pronun­cer­à a fine settembre la Corte co­stituzionale tedesca.
 Il perché degli effetti diversi di politiche monetarie simili ce l’ha spiegato bene il presidente del Consiglio, Enrico Letta, nel suo discorso di Rimini. «Negli Stati Uniti ci hanno messo poco tempo per decidere e uscire dal­la crisi. Poi il virus è arrivato da noi, è entrato in circolo e non era­vamo capaci di uscirne. C’entra la politica? E i cittadini si chiedo­no: cosa conta il nostro voto, la sovranità popolare?».
 Negli anni della crisi l’Europa è stata succube, e lo è tuttora, fi­no a quando la situazione non si sbloccherà con le elezioni del 22 settembre, dell’egemonismo egoista e calvinista della Germa­nia. E la Commissione europea di José Manuel Barroso è stata passiva. Forte con i deboli e de­bole con i forti, ha ceduto la sua sovranità allo Stato tedesco. Co­me ci ha ricordato il presidente Letta, con la scusa dello spread sono stati fatti cadere governi le­gittimamente eletti e il vuoto del­le istituzioni ha causato derive populiste, crisi democratiche e sentimenti antieuropei. Non so­lo in Grecia. Di più: le terapie san­gue, sudore e lacrime, imposte con somma improntitudine dal­la Germania ai paesi dell’eurozo­na sotto attacco speculativo, non solo hanno acuito la crisi, ma hanno anche finito col ridur­re gli ef­fetti delle misure nel con­tempo messe in atto dalla Bce.
 Delle difficoltà di trasmissio­ne della politica monetaria a causa della crisi, in Europa non si è mai seriamente discusso. Cia­scuno deve fare la sua parte. Le banche centrali facciano le ban­che centrali e i governi facciano la politica economica. L’occasio­ne per cambiare la politica eco­nomica europea è a portata di mano. La linea del rigore cieco e dell’austerità fine a se stessa di Angela Merkel non può più con­tinuare. È quella di Angela Me­rkel, egoista ed egemonica, intransigente, l’Europa che voglia­mo? È una Bce bloccata da conti­nui veti tedeschi, impossibilita­ta a fare crescita e sviluppo la banca centrale che vogliamo? Questi temi, se il nostro paese non fosse eternamente masochi­sta, dovremmo evocare in Euro­pa, per evitare che tutto quello che l’eurozona ha patito negli ul­timi 5 anni possa continuare e magari ripetersi. Appunto, se l’Italia non fosse un paese anco­ra una volta dilaniato da una guerra civile fredda. Se l’Italia non continuasse ad essere un pa­ese avvelenato dall’antiberlu­sconismo della sinistra.
 L’appello fatto sabato dal Pdl alle massime istituzioni della Re­pubblica, al primo ministro Let­ta e ai partiti che compongono la maggioranza perché risolvano la questione democratica, nel senso di riaffermare il primato della volontà popolare rispetto a un corpo separato dello Stato e ai suoi ricorrenti abusi di potere, quell’appello è, in fondo, anche un appello a non continuare a far­ci del male. Il tempo è scaduto.