Marco Filoni, il Fatto Quotidiano 26/8/2013, 26 agosto 2013
NON SOLO TATTICA E FIATO, IN PANCA CI VUOLE UN BEL PO’ DI FILOSOFIA
Qualcosa deve pur avercela. Un segreto, un’antica magia che strega, un sortilegio capace di ammaliare e sedurre. Come se il calcio fosse un rito pagano, una preghiera laica a un dio che si mostra solo sul campo. E voler cogliere quest’effimera essenza è roba da filosofi. Ma di quelli veri però, non quelli da bar sport che commentano la partite vestendo i panni da esistenzialista, empirico o razionalista. Per fortuna qualche filosofo vero c’è che si dedica a questo sport con i ferri del mestiere. È il caso di Elio Matassi, autore del godibilissimo Pensare il calcio (pubblicato dall’editore il Ramo di Genova). Non un vezzo o un esercizio di stile, bensì un’analisi raffinata e convincente di questo sport. Ci sono momenti in cui il calcio prefigura in campo nuovi sentieri dell’esperienza umana, come se il genio o una costruzione ben temperata dell’utopia facessero di colpo la loro irruzione nel nostro mesto presente. Ecco perciò che il filosofo, quasi con perizia da entomologo, cataloga le espressioni del calcio come se ci parlassero di altro, di noi, di come si costruiscono le società con la loro storia e le loro utopie. È così, Matassi ne è convinto, che il calcio può esprimere, per la sua intima essenza, una vocazione filosofica. Il più delle volte espressa dagli allenatori che applicano al gioco la loro visione del mondo.
Del resto il libro si apre con il più “filosofo” degli allenatori, Josè Mourinho. È sua la massima “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. L’allenatore portoghese (sposato con una filosofa e con una laurea, seppur honoris causa, in questa disciplina) si è esplicitamente ispirato, nei suoi allenamenti e nelle scelte tattiche, alla filosofia della vita del primo Novecento di Georg Simmel e Henri Bergson per esaltare il ruolo delle motivazioni su quello delle competenze individuali e collettanee. Una visione generalista, poi circoscritta in un modello (quello del “calcio totale”, che ha precedenti gloriosi dall’Olanda di Michels e Cruijff ai “laboratori” dell’est socialista fino al Milan di Arrigo Sacchi) che ancora oggi ha i suoi fedelissimi. In questo senso l’organizzazione della squadra può esser meglio compresa con lo Stato hegeliano: ogni giocatore è parte finalizzata al tutto, leibnizianamente una totalità eterodiretta dall’allenatore. Un’interpretazione che non sacrifica necessariamente il ruolo della grande individualità, almeno se coniugata con la stimolante lettura del poeta Wystan Hugh Auden, secondo cui tutti i giochi competitivi (e dunque anche il calcio) comportano un atto trasgressivo nei riguardi della natura e della sua irreversibile regolarità e necessità. Non solo: Matassi mostra come sia fecondo leggere la realtà di questo sport come se ci si trovasse nell’officina del filosofo. Per esempio lo scandalo delle scommesse letto attraverso il concetto di “cura”; oppure sulla scorta di Elias Canetti pensare lo stadio come un’enclave, l’individuazione cioè della dimensione “insulare” del calcio dal punto di vista spaziale, ossia una nicchia di separazione che esprime un’esigenza redentiva. Quindi l’allenatore visto come un redentore, un saggio capace di correggere le volubilità, le contraddizioni, le improvvisazioni dei giocatori. Un redentore alla Helenio Herrera: nel libro dedicatogli da Fiora Gandolfi (Maghi si diventa) non è peregrino che ne parli in questi termini: “La sua più grande qualità era il potere di farti sentire migliore, di trasformarti in un essere capace di non sentire il dolore, le stanchezze, di farti diventare invulnerabile, come un eroe o un dio della mitologia pagana. Infondeva con la sua parola una forza speciale, una luce interna fortissima, che ti trasformava”. Allenatori filosofi che, come Nietzsche, sanno indossare una maschera – l’ha affermato di recente Rudi Garcia, il nuovo allenatore della Roma: “Non c’è solo il mondo dentro, ma anche quello fuori. L’allenatore deve interpretare vari ruoli. Essere padre, capo, fratello, difensore”. Oltre però agli allenatori ci sono anche i giocatori che, nell’occasione, diventano anche teologi. Mondiali 1986: a Città del Messico si disputano i quarti di finale Argentina contro Inghilterra. Diego Armando Maradona è il miglior giocatore del mondo e, sin da quando è bambino, sente ripetersi che gioca come un dio. Perciò quella sera si accorda un piccolo miracolo. Ci mette la mano. Fu chiamata la “mano di Dio”. Espressione straordinaria che inventò lo stesso Maradona nella conferenza stampa subito dopo la partita. Trasformata, per l’occasione, in una lezione di teologia. Gli chiedono come ha segnato quel gol. Lui risponde: “Un po’ con la testa di Maradona e un po’ con la mano di Dio”. Inconsapevole saggezza. In fondo sta dicendo: o Dio non esiste, e allora io c’ho messo la mano, oppure Dio esiste ed è lui che ha segnato il gol. Se in religione il miracolo è ciò che si crede, quella sera il miracolo fu che nessuno, arbitro compreso, vide quella mano. In fondo forse aveva ragione Michel Platini quando, in una famosisima intervista del 1987, affermava: “Non c’è nessuna verità, ed è proprio per questo che tutto il mondo ama il calcio”.