Alessandro Penati, la Repubblica 24/8/2013, 24 agosto 2013
VENTI DI CRISI SUI BRICS, TEMPESTA SUI MERCATI
La politica ultra espansiva delle banche centrali e l’aspettativa di tassi a breve pressoché nulli sono state il principale sostegno di Borse e reddito fisso nel mondo. Così, è bastato il dubbio a inizio maggio di una possibile fine ravvicinata del quantitative easing della Fed per innescare una caduta generalizzata dei mercati. E come sempre, le perdite maggiori si sono avute in quelli emergenti, azionari e obbligazionari: i capitali, si sa, tendono a fuggire prima dagli investimenti più rischiosi. Il seguito della storia, però, ha evidenziato dinamiche diverse in diversi mercati, a segnalare che la situazione finanziaria è tutt’altro che stabilizzata. La convinzione che la Fed perseveri con la politica espansiva nei mesi a venire, anche se l’economia americana non sembrerebbe avere più bisogno di aiuti straordinari; i primi segnali di fine della recessione in Europa; e l’assicurazione anticrisi che BCE e Governo tedesco in vista di elezioni garantiscono all’euro, hanno fatto invertire la marcia alle Borse, sia negli Usa sia in Europa a partire da giugno. Ma nei mercati emergenti la caduta è continuata. Mentre da inizio anno Wall Street è salita del 15%, la borsa giapponese del 14%, e del 7% quelle dell’Eurozona, l’indice azionario dei paesi emergenti ha perso il 12% (indici in dollari). Peggio di tutti i Brics: -14% Russia, -30% Brasile, -21% India, -7% Cina (titoli A). Male anche i “nuovi emergenti” come Indonesia -13%, Sud Africa -10%,Turchia -19%, o Messico -6%. Le perdite sono causate da massicce, quanto generalizzate, uscite di capitali, che hanno colpito anche il reddito fisso (-11% i bond degli emergenti) e innescato veri e propri crolli dei cambi.
Per i paesi emergenti assomiglia a una tempesta perfetta. L’enorme afflusso di capitali di cui hanno beneficiato negli ultimi anni, grazie alle banche centrali occidentali, ha però creato disequilibri dovuti a un loro impiego non sempre efficiente. E ha lasciato in retaggio, in misura diversa, indebitamenti elevati, prezzi delle attività immobiliari gonfiati, bilanci pubblici bulimici, inflazione in crescita (già superiore al 6% in molti Paesi) e diffusi disavanzi nelle partire correnti. Queste economie sono poi colpite dalla caduta del prezzo delle materie prime (che molti esportano) e dalla domanda debole nei paesi avanzati. In questa situazione, i deprezzamenti causati dalla fuga dei capitali, contribuiscono ad aumentare l’inflazione e rendere più gravoso l’onere del debito contratto in valuta. Le banche centrali stanno contrastando la fuga alzando i tassi di interesse e intervenendo massicciamente sui mercati valutari (avendo le riserve per farlo). Ma così facendo aggravano la stretta creditizia. E gli interventi sono un palliativo.
Paradossalmente la crisi dei paesi emergenti sta avvantaggiando, per il momento, le borse di Europa e Stati Uniti. I capitali in fuga non si dirigono verso il tradizionale rifugio dei titoli di Stato dei paesi sicuri: le aspettative di ripresa nel mondo avanzato e il cessato pericolo deflazione ne fanno infatti un pessimo investimento (da maggio, l’aumento del rendimento del decennale tedesco e americano ha provocato perdite dell’8% e 14% rispettivamente); i tassi monetari sono nulli; rimangono solo le Borse occidentali a intercettare i flussi. Ci vuole tempo perché le economie emergenti ritrovino l’equilibrio finanziario e attuino le riforme necessarie. Intanto verrà a mancare un fondamentale traino dell’economia mondiale; e quindi degli utili delle multinazionali. Inoltre, la ripresa europea a rimorchio della Germania esportatrice appare vulnerabile: come si può far affidamento solo sull’export se gli Usa rimangono sotto la crescita potenziale, l’euro si rafforza, gran parte d’Europa è alle prese con austerità e credit crunch e gli emergenti sono in crisi? Niente a che fare con il 1998, ma si sta sottovalutando l’effetto che la crisi dei paesi emergenti potrà avere.