Safrah Manzoor, D, la Repubblica 24/8/2013, 24 agosto 2013
WALL STREET È UN ATTIMO
All’una meno 7 minuti del pomeriggio di martedì 23 aprile 2013 l’Associated Press di Washington posta un tweet. Ultim’ora: due esplosioni alla Casa Bianca. Barack Obama ferito. Naturalmente non è vero. Il sito dell’Associated Press è preso di mira da un gruppo di hackers, The Syrian Electronic Army, e nel giro di pochi millisecondi, il tweet è individuato e trasmesso dai computer d’intermediazione finanziaria di Wall Street. Programmati per esaminare su internet parole o frasi che possano aver ripercussioni sui mercati, quei macchinari automatizzati, privi di cervello, immediatamente colgono il tweet, esaminano la vicinanza delle parole “Obama”, “esplosioni” e “Casa Bianca” e scatenano una serie di reazioni finanziarie. In pochi secondi l’indice Dow Jones scende di 140 punti e oltre 200mila miliardi di dollari di capitali sono spazzati via. Alcuni minuti dopo la notizia è identificata come una bufala e i mercati azionari tornano rapidamente ai livelli precedenti il tweet. Molti sono sconvolti all’idea che basti così poco. Ma chi gestisce Wall Street? Gli uomini o le macchine? Se pensate che siano gli uomini, aggiornatevi. Nell’ultimo decennio sulle piazze di scambio c’è stato un golpe tecnologico. I vecchi “dominatori dell’universo” alla Gordon Gekko, coi capelli lisci all’indietro e i completi da 5mila dollari, sono stati sostituiti da computer immensamente potenti, capaci di analizzare un’enorme quantità di dati, e comprare o vendere titoli in un batter d’occhio. In Borsa oggi non trovate uomini stressati con le cravatte allentate, che sbraitano al telefono, ma persone disciplinate (soprattutto maschi) sedute al pc a monitorare i titoli che le macchine gestiscono per loro. A Wall Street il 70% degli ordini d’acquisto o vendita sono fatti tramite programmi software e alcune persone diligenti, ossia i cervelloni matematici responsabili della scrittura di quei programmi, sono «i nuovi brillanti ragazzi di quell’ufficio» (per citare il film Enron: The Smartest Guys in the Room, in italiano Enron-L’economia della truffa, 2005). Benvenuti nell’era dell’algoritmo.
I matematici hanno iniziato a intrufolarsi nel mondo finanziario a fine anni 60. Edward Thorp, docente all’Università della California, pubblicò nel 1967 un libro intitolato Beat the Market (Battere il mercato), in cui esponeva un metodo sicuro per guadagnare in Borsa, basato su un sistema per vincere a Black Jack che aveva scoperto al casinò. Tale metodo aveva riscosso così successo che i casinò erano stati costretti a cambiare le regole. Beat the Market, che parlava di vendere azioni e titoli a un costo per poi ricomprarli a un prezzo inferiore, si dimostrò ancor più efficiente. Tanto che nel 1974 Thorp lanciò un fondo d’investimenti, il Princeton/Newport Partners. Nel frattempo, per gli scienziati le prospettive di lavoro erano precipitate. A partire dal 1969, anno del primo allunaggio, il governo Usa aveva dirottato i fondi per la ricerca sul finanziamento della guerra in Vietnam. «Una generazione di laureati in fisica uscì dalle università ed entrò in un mercato del lavoro seriamente depresso», spiega James Owen Weatherall, autore di La fisica di Wall Street. Tra quelli che dovevano guadagnarsi da vivere, molti decisero di approdare alla finanza. Intanto, in Gran Bretagna la caduta dell’Urss aveva indotto gli scienziati del Patto di Varsavia a emigrare. In entrambi i casi, questi uomini di scienza portarono con sé una nuova metodologia basata sull’analisi dei dati e la convinzione che, utilizzando computer sufficientemente potenti, si potesse prevedere l’andamento dei mercati. Fu l’inizio di una disciplina, l’analisi quantitativa. Il “quant” più famoso è stato Jim Simons, incredibile cervellone, dinoccolato, barba incolta, avversione per i calzini. Chi conosce la fisica sa che Simons è una leggenda vivente, ha cofirmato la formula di Chern-Simons, tra i più importanti elementi della teoria delle stringhe, la cosiddetta “teoria del tutto”. Accademico d’alto profilo, non pareva adatto a Wall Street. Ma nel 1982 avviò una società di fondi di investimento di gran successo, Renaissance Technologies: Medallion, il fondo separato che conteneva solo i soldi personali dei dirigenti della società, portò a un rendimento del 2.478% nei primi 10 anni, molto più di qualsiasi altro fondo sulla Terra, compreso il Quantum di George Soros. Tale successo, basato su un algoritmo complesso e segreto, continuò per tutti i Duemila; i profitti di Medallion sono arrivati alla media di un 40% annuo, facendo sì che Simons diventasse uno degli uomini più ricchi del mondo con guadagno netto di oltre 10mila miliardi di dollari. Dei suoi 200 dipendenti, alloggiati in un edificio-fortezza a Long Island, ormai un posto fuorimoda, un terzo possiede un dottorato: non in economia, ma in fisica, matematica, statistica. Renaissance è definita «il miglior dipartimento di fisica e matematica del mondo» e, secondo Wheatherall, «non assume nessuno che abbia la benché minima reputazione a Wall Street. Non sono accettati i curricola di chi ha un dottorato in economia o di operatori che abbiano cominciato la carriera in banche tradizionali o in altri fondi. Il segreto di Simons è stato lo sterminio degli esperti finanziari».
Non sorprende che gli operatori economici vecchio stile odino i “quant”. Che sono notoriamente impacciati nei rapporti sociali. Lo racconta in un blog un anonimo venditore di software «Non sanno conversare. Se ne incontro uno alla reception, e salgo con lui in ascensore, so che non posso chiacchierare del più o del meno. Non capisce. Pensa che gli stia comunicando qualcosa di importante sulla meteorologia».
Ma cosa fanno concretamente gli analisti quantitativi? Patrick Boyle e Jesse McDougall gestiscono un fondo a Islington, Londra. I loro uffici sono vicino a una caffetteria equosolidale, i cui proprietari ignorano di lavorare gomito a gomito col capitalismo più rampante. Li incontro in una stanzetta dominata da tre grandi computer. Cominciano alle 7 di mattina, finiscono alle 11 di sera. «Abbiamo schermi in cucina e in sala», spiega Boyle, 37 anni. «Possiamo monitorare i mercati mentre ceniamo e accedere in remoto se siamo fuori la sera». Mi mostra uno schema dell’andamento del suo fondo: segue in modo zizgagante quelli del mercato. Com’è possibile? «Con la matematica», risponde. «Compriamo i dati di andamento della Borsa e li analizziamo. Come fossero le previsioni del tempo. C’è un 65% di probabilità che, tra apertura e chiusura, il mercato cresca, dunque abbiamo più del 50% di probabilità sui titoli a breve termine; col passare delle ore, chi vuole il rimborso di un titolo a breve termine potrebbe avere profitti». Chi ha ideato i programmi che utilizzate? «Io», risponde Boyle. E come ha fatto? «Lentamente».
Sì, la stesura di un programma è lenta ma la velocità delle transazioni è rapidisima. Alcuni “quant” si specializzano in Hft (High Frequency Trading, transazioni ad alta frequenza), che implicano un gran numero di scambi commerciali in periodi molto brevi. «In un millisecondo una quotazione può salire di un centesimo», dice McDougall. «Se lo fai migliaia di volte su centinaia di azioni, ci guadagni». Ma il fondo di Boyle e McDougall non opera nelle transazioni ad alta frequenza. E allora cerco Simon Jones, che, fino a pochi mesi fa, gestiva il dipartimento degli analisti quantitativi di una grande banca. Ha 36 anni. «I ragazzi e le ragazze coi quali lavoravo erano il meglio del meglio, da tutto il mondo. India, Russia, Cina. Il lavoro era intenso, competitivo». Racconta: «Avevo notato che quando l’indice Dow Jones scende, il FTSE sale. Il primo che, notata la cosa, decide di comprare e vendere, può guadagnare. Ma per farlo, devo aver sottomano i dati di tutte le Borse, da NewYork a Londra, per prendere la decisione Oltreoceano e comprare il mio FTSE per primo». La velocità ha portato alla cosiddetta “corsa agli armamenti tra società”. A tal punto che talune spostano i loro server vicino alle Borse. Nel 2010 la Spread Networks ha posato una linea di cablaggio tra NewYork e Chicago, attraverso i monti Allegheny, ottenendo un’accelerazione di poco più di 1 millesimo di secondo del tempo di trasmissione tra le borse. Per installare un cavo simile tra NewYork e Londra alla banca di Jones avevano chiesto 50 milioni di dollari. «Il vantaggio sugli altri sarebbe stato di 6 millesimi di secondo». I guadagni veloci a breve termine hanno però incentivato la volatilità. «Warren Buffet possiede azioni della Coca-Cola: se scendono e lui dice che se le tiene, fa sapere di pensare che risaliranno», commenta Jones. «Ma all’operatore di Hft interessa solo il millisecondo seguente. E quando troppe persone vanno nel panico per il millisecondo seguente, è il momento del crollo».
Il crollo perfetto è accaduto il 6 maggio 2010. Vennero scambiate così tante azioni che la sezione online della Borsa di NewYork si paralizzò.Tra le 2.30 e le 3 del pomeriggio l’indice Dow Jones aveva perduto e poi riguadagnato circa 3000 miliardi di dollari. In quel che venne detto Flash Crash (crollo improvviso), le azioni della società di consulenza Accenture crollarono a 1 punto sopra lo zero. Le azioni della Apple salirono a l00mila dollari. «Nessuno sapeva cosa fare o cosa sarebbe accaduto», dice Dave Lauer, “quant” che quel giorno lavorava alla sezione Hft. «Fu terrificante». Secondo Lauer, il Flash Crash è stato un campanello d’allarme. «Cominciai a capire come questa corsa alla velocità rendesse le cose fragili”. L’anno dopo sua moglie restò incinta e lui cambiò vita: «Ricordo di aver pensato “Non potrei spiegare a mio figlio il mio lavoro”». Lauer lasciò il posto e riferì al Senate Banking Committee che le transazioni ad alta frequenza avevano portato il mercato a un punto critico. Il Flash Crash in parte era stato causato dalla strategia della “finzione” delle transazioni ad alta frequenza, un sistema di offerte fittizie di vendita o acquisto di titoli per stanare le intenzioni dei rivali. Quel giorno vennero trattate sul mercato un numero incredibile di azioni, 19mila miliardi, valore superiore al volume di tutte le azioni scambiate negli anni 60, ma centinaia di milioni di tali azioni non furono mai vendute, solo tenute in sospeso per pochi millesimi di secondo, per dar modo agli operatori di sondare il terreno. Non è perverso fomentare la volatilità per farne beneficiare non una persona, ma una manciata di fondi? Charlie Munger, socio di Warren Buffet, definisce le transazioni ad alta frequenza dannose. «Molto stupido consentire l’evoluzione di questo sistema: metà del mercato è costituito da un pugno di persone, che a tempo determinato, tentano di ottenere informazioni un millesimo di nanosecondo prima di qualcun altro», ha dichiarato. «Si legalizza una corsa tra favoriti».
Le Hft non avvantaggiano gli investitori odierni, i risparmi dei fondi pensione, le assicurazioni sulla vita. I “quant” che ho incontrato non ritengono di fare qualcosa di nocivo, ma qualche dubbio cominciano ad averlo. «Alcuni ragazzi di formazione scientifica o matematica sono usati per risolvere problemi. Ottimo», dice Boyle. «Peccato che credano di trovare la formula perfetta dell’andamento dei mercati. La pietra filosofale». Dopo 16 anni alla City, Simon Jones vuole dedicarsi ai viaggi. «Un “quant” può guadagnare stipendi da 7 cifre», mi confessa. «La mia banca aveva assunto i migliori ingegneri, i migliori chimici, i migliori scienziati. Ma lavoravamo insieme solo per diventare ricchi. Abbiamo paralizzato le società chimiche, fisiche e farmaceutiche: se per incentivare le ricerche sul cancro ci fosse un sistema di premi come quello che avevamo noi della City, a quest’ora ci sarebbe già una cura». Ma allora, i “quant” sono un bene o un male? Jones mi guarda: «Sono soltanto un nuovo modo per diventare avidi».
(© Seven magazine. Traduzione di Simona Silvestris)