Guido Andruetto, la Repubblica 25/8/2013, 25 agosto 2013
ARRIGO CIPRIANI
L’acqua alta è una strana bestia da domare. L’istinto di chi abita in Laguna dovrebbe consigliare di farsela amica, di non vederla come un pericolo, ma poi davanti alla minaccia dell’alta marea gli stessi veneziani scivolano ancora in uno stato di irrequietudine, trascinandosi dietro orde di turisti in stivali per campi e campielli all’asciutto. Arrigo Cipriani, invece, è un distinto signore che cammina sulle acque e non si cura delle previsioni meteorologiche: il suo Harry’s Bar non chiude mai. «Guardi lì, all’altezza del bancone — fa segno con la mano, mentre ci accomodiamo sulle venerande poltroncine in pelle del suo locale, una stanza di appena cinque metri per nove di cui è “prigioniero” da più di ottant’anni, cioè da quando nacque nel 1932, futuro erede di Giuseppe Cipriani — l’acqua è arrivata anche lì, fino a quel livello, era una mattina di novembre del 1966, ma è stata la prima ed unica volta in cui abbiamo rinunciato a tenere aperto il locale. Ci saranno stati almeno settanta centimetri d’acqua, non si andava dalla prima sala alla cucina. Eppure provai un’emozione strana, un misto di felicità e spensieratezza che mi riportava al tempo della mia infanzia, quando sguazzavo con gli stivaletti di gomma nelle calli».
D’altronde Cipriani vive nel ricordo del passato semplicemente perché il presente ne è lo specchio fedele. In questo angolo di luce e di buon gusto al fondo della stretta calle Vallaresso, il tempo si è fermato e ogni cosa è allo stesso posto dove l’aveva lasciata il fondatore dell’Harry’s Bar, il papà Giuseppe, prima della sua dipartita nel 1980. «I clienti non si abituarono subito alla mia presenza — racconta adesso con leggiadra ironia — ricordo che i primi tempi una delle due swinging doors dell’entrata si apriva appena per far passare la testa di un cliente. Succedeva spesso che mi chiedessero “c’è Cipriani?”. Gli rispondevo di sì, che ero io, ma loro niente, replicavano senza tanti giri di parole “no, Cipriani, suo padre”, come per dire quello vero. È naturale che dopo trentacinque anni volessero vedere in faccia Cipriani, quello vero». Il “vecchio” Cipriani è stato infatti una figura molto presente nel suo locale fin dal primo anno di apertura, nel 1931: in quell’ex magazzino di corde a due passi da piazza San Marco, che settant’anni dopo verrà dichiarato “patrimonio nazionale” dal ministero dei Beni Culturali, il patron dell’Harry’s Bar ideò alcuni cocktail e piatti ispirati dalla storia dell’arte veneziana che sarebbero diventati un simbolo della Serenissima nel mondo, dal Bellini a base di pesche bianche pressate in un imbuto cinese e Prosecco, fino al carpaccio, un taglio di carne cruda servita con una salsa di sua invenzione, o il risotto alla Primavera, poi imitato ovunque.
Il vero motore del successo di questo leggendario locale è stato però la semplicità: il compianto Cipriani amava il contatto con la gente ed appariva sempre di ottimo umore, anche quando era ai limiti dello sfinimento. Un grande lavoratore e un uomo buono, che serviva i suoi clienti con la stessa semplicità con la quale, a sua volta, gli sarebbe piaciuto essere servito. Fu quel suo temperamento gioviale, oltre alla maestria assoluta nel preparare i migliori drink, come il Martini secco tanto amato dai suoi clienti più esigenti, che lo avvicinò a personaggi di grande levatura intellettuale, da Truman Capote a Maria Callas, da Orson Welles a Ernest Hemingway, che ambientò il suo romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi proprio a Venezia e all’Harry’s Bar, dove i due protagonisti della storia, la giovane veneziana Renata e il colonnello Richard Cantwell, si ritrovano più volte a conversare davanti a un cocktail. “Oltre le dolcezze dell’Harry’s Bar e le tenerezze di Zanzibar, c’era questa strada… questa strada zitta che vola via come una farfalla, una nostalgia” canta Paolo Conte nella sua Hemingway. «Non c’è che dire, fu lui il vero re dell’Harry’s Bar e di Torcello dopo la guerra — ricorda Cipriani — Hemingway piombò nel nostro locale nell’autunno del 1948 e per tutto l’inverno visse in un appartamentino intitolato a Santa Fosca al primo piano della Locanda a Torcello, che mio padre aveva deciso di tenere aperta in via del tutto eccezionale. Io a quel tempo ero solo un giovanotto, ma rimasi molto colpito nel vederlo una mattina appoggiato al davanzale, con la sua grande barba grigia, mentre mi salutava con la mano. Fu un gesto di allegra complicità nei confronti di un ragazzo da parte di un uomo considerato da tutti come un’importante personalità. Però era estroverso solo in apparenza. Penso avesse paura della solitudine e per questo cercava sempre la compagnia degli altri, ma poi la ricambiava largamente».
Nell’album di famiglia, il signor Cipriani — che deve il suo nome di battesimo ad Harry Pickering, un giovane studente americano che donò al padre la somma necessaria per aprire la prima attività in proprio — conserva una fotografia in bianco e nero che ritrae il padre e lo scrittore seduti a tavola. «Avevano questi enormi sombreri in testa e un’espressione in volto tra il sognante e l’allegro. Davanti a loro, sul tavolo, un diluvio di bicchieri vuoti e di tazzine da caffè che si erano bevuti a pranzo, e infatti mio padre dovette poi stare a letto tre giorni per smaltire la sbornia». Cipriani è un fiume in piena, un’alluvione di ricordi e di aneddoti che in buona parte ha trasferito, come scrittore, nelle pagine di un bel libro, Prigioniero di una stanza, pubblicato da Feltrinelli. «Anche Orson Welles aveva una personalità straripante. Grosso come un armadio, quando entrava qui all’Harry’s Bar aveva sempre una gran fame e dopo averla saziata si lasciava andare sullo schienale della poltrona per poi guardarsi intorno con aria di soddisfazione ». Tutto il mondo, specie quello che conta, è infatti passato all’Harry’s Bar. «Le persone qui da noi si sono sempre mischiate. Pluralità nella diversità. Da Woody Allen ai militanti di estrema sinistra ». Gli estremisti, per davvero, all’Harry’s Bar? «Sì, quelli dei centri sociali. Vennero a cena in otto, una sera di novembre del 2004, e mangiarono qui nella stanza. Poi se ne andarono alla spicciolata senza pagare e lasciarono un biglietto su cui c’era scritto: “pagherà Galan, oppure la Nato, o San Precario”. Deve sapere che in quei giorni si svolgeva il vertice Nato qui a Venezia, ma non mi aspettavo che l’Harry’s Bar diventasse il palcoscenico della protesta. Morale della favola, mi chiama il segretario dell’allora presidente della Regione Veneto, Galan, e dice che vuole pagare lui il conto. Ottocento euro. Passano i mesi e il segretario mi richiama: Arrigo, quando facciamo la cerimonia del pagamento? Ho capito che cercava un ritorno d’immagine e gli ho risposto piccato di lasciar perdere. In fondo quei ragazzi avevano le loro ragioni per protestare. Sono sempre stato un po’ rivoluzionario anch’io, non ho mai fatto le serrate come gli altri commercianti, mi batto contro il Mose, e poi Galan non è neanche un mio cliente». Per il Mose, in particolare, Cipriani nutre una specie di avversione fisica: «Non servirà a niente. L’acqua è l’ossigeno di Venezia, non la causa della sua fragilità. Le masse di turisti che la invadono ogni giorno sono molto più pericolose. L’acqua alta non è un problema, ma vogliono farci credere il contrario. Paghiamo consulenze d’oro per farci dire che il Mose è necessario».
Il signor Cipriani detta legge, la sua, dall’alto di un’istituzione molto speciale, «L’Harry’s Bar è un’attività commerciale diversa dalle altre. Questo bar è uno psicoanalista, o almeno su di me sortisce lo stesso effetto. Si entra in questo ambiente dove non esistono imposizioni, la sedia è comoda, il tavolo all’altezza giusta, la luce, l’acustica, tutto funziona. Ci si sente tutti uguali e trattati nello stesso modo. Una volta Richard Gere mi ha fermato vicino alle scale e mi ha detto: “Cipriani, ma che cosa c’è in questa stanza?”. Forse è eccessivo parlare di spiritualità, ma qui c’è qualcosa di immateriale che si trasmette negli anni». Eppure Cipriani è anche un marchio globale, business puro, con quattordici locali nel mondo e un impero guidato dal principale erede di famiglia, il figlio Giuseppe. Nell’evoluzione commerciale, l’Harry’s Bar è rimasto comunque saldamente ancorato a una sponda “culturale” che oggi lo mette al riparo dalle polemiche scoppiate in questi giorni in Laguna per via dei prezzi gonfiati e dai locali storici che si affacciano su piazza San Marco. Diversamente, all’estero la famiglia Cipriani ha dovuto fare i conti con diversi contenziosi legali negli Stati Uniti, ma il signor Arrigo pensa positivo, come insegna a fare agli studenti dell’Università Ca’ Foscari dove tiene un corso in sviluppo culturale dei sistemi turistici: «A New York ci hanno osteggiati in tutto, ma apriremo presto nuovi locali: a Miami, a Las Vegas, a Dubai...».