Ida Bozzi, Corriere della Sera 26/08/2013, 26 agosto 2013
RIPETENTE NON E’ UNA PAROLACCIA
Un pamphlet sugli ultimi della classe che solleva un tema importante nel campo dell’educazione, del lavoro e della società, quello della meritocrazia, smontandolo pezzo a pezzo e rimontandolo in una forma inusuale. Il «professor» Eraldo Affinati, autore di una quindicina di libri (tra cui va segnalato in particolare La Città dei Ragazzi del 2008, Mondadori), è uno scrittore, docente delle superiori, che ha spesso raccontato nelle sue opere il rapporto ora entusiasmante, ora arduo, con le generazioni dei discendi più difficili ed emarginati.
Nel nuovo piccolo libro Elogio del ripetente pubblicato per le Libellule Mondadori, in libreria da domani, pare centrare oltre all’argomento anche il modo, il tono. Che è quello di intrecciare, alle brevi parti narrative, altrettanto agili parti teoriche e di discussione, ben sapendo che anche l’attenzione del lettore (come quella dell’alunno) può distrarsi facilmente: ne viene un testo vivace e lieve, non privo di ironia, che però è tutt’altro che accomodante sulla situazione scolastica italiana, sui programmi d’insegnamento, sulla validità «meritocratica» dei voti e dei giudizi, sulle Prove Invalsi, e appunto sul concetto di merito; un merito che talvolta il Paese delle «eccellenze» — sostiene lo scrittore — elogia a vanvera, per moda o per posa, senza in realtà capirlo.
L’incipit è esilarante, ma accorato e non beffardo, laddove la figura del ripetente viene presentata come in un’epica di antieroismo scolastico dal crescendo ritmico: «Oppone resistenza in ogni modo: non ha i libri, dimentica il quaderno, rompe le penne, straccia il foglio, non consegna gli elaborati. Interrompe di discorsi. Rumoreggia. Litiga coi compagni. Non mantiene le promesse. Durante le interrogazioni canticchia».
Ed ecco che dopo un lungo elenco di altre birichinate, le distrazioni e le mancanze si mescolano alle sofferenze del ragazzo, e allora il sorriso del lettore si increspa, si smorza: «Tiene la testa dentro il cappuccio. I suoi problemi diventano i tuoi: ha gli occhi rossi, lo sguardo abulico, si sente male, telefona a casa per farsi venire a prendere ma non c’è mai nessuno...».
Qui comincia l’analisi di Affinati, con l’affermazione: «Bisogna premiare il movimento prima ancora del risultato». E cioè, spiega lo scrittore professore: se l’alunno Marco — perdigiorno del parchetto con una situazione familiare drammatica, nessun background culturale e gli amici teppisti — mostra un segno vero, ancorché personale, di attenzione e di comprensione, quel ragazzo merita otto. Una meritocrazia d’onore, che guarda a valori più intensi della semplice resa nei quiz. Mentre se Alessio, agiato, tranquillo, cresciuto ascoltando «le favole della madre», tra le comodità, arriva appena al sei, allora per lui l’asticella della difficoltà va alzata, è come se avesse preso un’insufficienza.
Tutto qui, un sei politico all’asino e la «questione merito» è risolta? «Neanche per sogno — scrive Affinati —. Gli obiettivi da raggiungere andrebbero moltiplicati».
Innanzitutto, spiega il docente, occorre comprendere che ogni ripetente che riesca, nel suo piccolo, a compiere «un passo in avanti rispetto alla situazione familiare in cui si trova» è da afferrare al volo (specie in questi tempi di abbandono scolastico) e da sostenere. Ed è una formula ampia, che non comprende solo chi viene dalle periferie e trova nella scuola il riscatto, ma anche il ragazzo viziato e abulico, che però impari a impegnarsi, a comprendere a fondo, a non adagiarsi nell’inerzia e nella superficialità. A questo proposito, illustra lo scrittore, «continuo a restare sorpreso dalla capacità di reazione dei miei scolari: attingono a una forza che li trascende». Una forza misteriosa che non è, purtroppo, quella dei genitori assenti narrati nel libro, problematici o immaturi, «ragazze fragili col trucco troppo vistoso, giovanotti ricoperti di tatuaggi», lontani nei comportamenti con i figli dall’immagine autorevole di padri e madri.
Come può avvenire l’incontro tra il ripetente da salvare, sfuggente e chiuso nel suo guscio di dispetti e provocazioni, e il professore? «Oggi i ragazzi sono lasciati nel vuoto dialettico, i loro insegnanti restano gli unici ormai a doverli richiamare ai valori della serietà» in una società dell’effimero. Ma la forza dell’insegnante è proprio, almeno nel caso di Affinati, la possibilità offerta da «due solitudini che si incontrano»; l’insegnante è inoltre «lo specialista dell’avventura interiore», spesso l’unico, in mancanza di una famiglia e di un milieu, di un ambiente: il solo adulto custode davanti al ragazzo del «giacimento di conoscenze» della nostra civiltà.
Responsabilità grandissima, quella del docente — di cui lo scrittore non manca di raccontare le fatiche: il libro preferisce però occuparsi del rapporto tra alunni e professori, più che dell’enorme e pressante quantità di doveri, regole, programmi, oltre che frustrazioni e sperequazioni, cui l’insegnante è sottoposto. Si addentra ad esempio nell’asetticità dei test a quiz, criticata perché esalta l’esattezza delle risposte invece della «curiosità» per la materia, curiosità che può essere anche non ortodossa, personale, bizzarra. E spiega che l’intelligenza, l’amore o la paura per l’ignoto, la curiosità di Edoardo, Lorenzo, Valerio, Romoletto, e tutti gli altri «suoi» ripetenti, ma anche la nostra, non si misura solo in risposte esatte ma in profondità della nozione appresa. Una risposta volonterosa, anche se sbagliata, può essere sintomo di un’intelligenza notevole che vuole essere trovata e liberata.
Ida Bozzi