Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 25/8/2013, 25 agosto 2013
ETTORE
& FEDERICO–
A vent’anni dalla morte, Federico Fellini è un riconoscibile bagaglio di visioni, una dimensione fertile di stimoli fantastici, un patrimonio d’immagini che riflettono un modo tutto suo — che è diventato anche tutto nostro — di narrare l’infanzia, la provincia, la famiglia, il matrimonio, l’eros, la psicoanalisi, le donne, il cattolicesimo, la Roma barocca e decadente, la poesia suburbana, i nuovi media… Il suo cinema respira nel tempo, si mostra colmo di preveggenza, vive nel vocabolario con termini quali “amarcord”, “la dolce vita”, “e la nave va”, riemerge nelle opere di oggi (vedi La grande bellezza di Sorrentino).
Fellini è tra noi, ed Ettore Scola ha cercato di stanarlo. L’autore di C’eravamo tanto amati e di Una giornata particolare insegue amorevolmente i tratti del suo amico e collega in Che strano chiamarsi Federico, un film che ha scritto con le figlie Paola e Silvia, e che segna il suo ritorno dietro la macchina da presa dopo un decennio. Sarà presentato il 6 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia e uscirà nelle sale il 15 dello stesso mese. «L’ho concepito come un album», spiega seduto al tavolino di un caffè di Piazza del Popolo durante una pausa del montaggio, «sul quale attaccare fotografie, ritagli, petali di fiori, frammenti di lettere ricevute…». Fellini vi si ricompone attraverso varie tappe, da quando giunse a Roma per fare il disegnatore nel giornale satirico Marc’Aurelio, dove Scola lo conobbe, fino al 1993, anno del suo settantreesimo e ultimo compleanno. Testimonianze, luoghi, emozioni, frammenti di memoria, sguardi condivisi, amici e attori comuni, si riversano in una miscela tra immagine pubblica («il Fellini che tutti conoscono») e ritratto privato, frutto di una lunga consuetudine «fatta anche di camminate notturne per le strade di Roma» racconta Scola, «tra scherzi, scambi di opinioni, storie di donne, cronache un po’ inventate e un po’ no. Quando giravamo i nostri film, ci facevamo visita sui rispettivi set». Scola ha raccolto il tutto in un affettuoso scompiglio cronologico che definisce «un po’ cubista»: a documenti originali, presi dagli archivi Rai e dall’Istituto Luce, nel film s’alternano scene girate nel Teatro Cinque di Cinecittà, contenitore privilegiato delle avventure felliniane.
«A Cinecittà io non ci abito, ma ci vivo», amava dire Fellini. Ogni esperienza, amicizia e progetto per lui cominciava e finiva in quei teatri di posa. Percepiva ciò che accadeva al di fuori dei cancelli del leggendario stabilimento cinematografico come un insieme di affluenti da far convergere nel fiume onnivoro del suo Teatro Cinque. Il mondo esterno era «un enorme deposito da visitare e razziare, avidamente e instancabilmente, per trasportare il tutto dentro Cinecittà». Anche per Scola, fin dagli inizi, quella distesa di capannoni è stato un motore di fantasie: «Quando, nel ’36, vi entrai per la prima volta con i miei genitori come visitatore, la visione di Amedeo Nazzari che scendeva da un’Alfa Romeo bianca coupé ebbe su di me un effetto di fascinazione quasi sessuale».
Nella roccaforte dei sogni felliniani, Scola ha rimontato oggi alcuni posti emblematici del proprio percorso e della peculiare galassia felliniana, dall’ufficio del direttore del Marc’Aurelio fino al salotto di famiglia in cui Ettore, bambino, leggeva al nonno cieco una rubrica della rivista che fu il punto di partenza del suo rapporto con Federico: «Però non gli leggevo solo il Marc’Aurelio. Il nonno era un patito di Lamartine e Montesquieu, e io di quei libri non capivo nulla. Ma tra un testo incomprensibile e l’altro potevo imbattermi in Capitan Fracassa e nei titoli di Dumas, dove individuavo finalmente trame appassionanti da seguire».
Nel film-omaggio a Federico si stagliano le apparizioni di Alberto Sordi, Marcello Mastroianni e Ruggero Maccari, e tra gli ambienti ci sono la via Veneto della Dolce Vita, un teatrino di varietà (l’avanspettacolo è un segmento non rinunciabile del cosmo di Fellini), i bagni pubblici de La Casa del Passeggero vicino alla stazione Termini, la via del Mandrione e la passeggiata archeologica. Qui i due registi, da vitelloni impenitenti, andavano a sbirciare le prostitute, facendo le ore piccole sulla Lincoln nera di Federico. Erano scorribande costellate da incontri fortuiti e stralunati, come quello con un madonnaro ubriaco (sullo schermo è Sergio Rubini) e con una “battona” (Antonella Attili). Facile, in quel clima di vaghezza, ingaggiare dibattiti aleggianti «all’insegna dell’irrinunciabile P. P. C., ovvero della Presa Per il Culo». Nel film di Scola tali trasferte insonni saranno affidate a un Fellini giovane (interpretato da Tommaso Lazotti) e a uno Scola altrettanto ringiovanito (Giacomo Lazotti).
Tra un’occhiata e l’altra alle Cabirie della capitale, i due cineasti intrecciavano chiacchiere e confidenze, «e il passato lavoro al Marc’Aurelio, un’attività che segnò profondamente il cinema di Fellini, tornava di continuo nelle conversazioni». Quella rivista bisettimanale fu un serbatoio formidabile della cultura italiana del Novecento, non solo cinematografica: «Ci sono passati Zavattini, Campanile, Mosca, De Seta, Attalo, Vittorio Metz, Marcello Marchesi… Nato nel 1931, era un centro di umorismo popolare, volgarotto e vitalissimo. Durante il fascismo rappresentava l’unica voce che si permetteva qualche sberleffo senza essere censurata. Vi compariva una rubrica di Giovanni Mosca dedicata al linguaggio e all’ideologia di quel periodo, prendendo per esempio in considerazione frasi assurde come “la bandiera garrisce”. Si presentava come una lezione di grammatica, ma celava una satira feroce alla retorica fascista e ai discorsi di Mussolini». Questo genere di “messaggi”, tuttavia, costituiva solo un sottotesto, non dichiarato né pianificato: «Il Marc’Aurelio non era un’isola di progressisti o comunisti, anzi: era un’area un po’ qualunquista. L’importante era far ridere. Di volta in volta le retribuzioni erano proporzionali allo spasso provocato dalle nostre gag».
La pubblicazione s’interruppe con la guerra e riprese nel ’47, anno in cui vi sbarcò il ragazzo Scola, che irruppe nella redazione romana in pantaloni corti. Vi rimase fino al ’54: «Fellini ci lavorava già dal ’39. Ideava rubriche, vignette e le sequenze delle Storie di Federico. Aveva dodici anni più di me, ed era un giovane filiforme e già dotato del suo famoso eloquio da sirena». Ma non era tra le star del giornale: «Attalo, Mosca, Campanile e Zavattini erano più ammirati di lui. C’era pure Steno, autore, nel ’50, del film Vita da cani con Monicelli. Nello stesso anno uscì Luci del varietà, firmato da Fellini e Lattuada. Due film singolarmente simili, ma quello di Steno ebbe più successo ». Nel periodo del
Marc’Aurelio Federico era ammaliato dalle donne create da Attalo, «tanto più caricaturali delle sue», rammenta Scola. «Mentre Attalo, con le sue figure debordanti, irrideva la femminilità, Fellini sentiva come oggetti di desiderio i corpi copiosi delle donne che disegnava». Qual era il segno grafico del giovane Scola? «Il mio mito era Saul Steinberg, artefice di un segno stilizzato e sottile », risponde il regista, che non ha mai perso il suo tratto d’illustratore delicato ed elegante, come dimostrano gli schizzi realizzati anche sul set di Che strano chiamarsi Federico (e per la prima volta pubblicati in queste pagine, ndr). «Negli anni Trenta Steinberg fece vignette per il Bertoldo e nel ’40 andò negli Stati Uniti, dove divenne uno tra i massimi disegnatori del New Yorker. Quando stavo al Marc’Aurelio il mio umorismo modellato sul suo veniva a volte considerato troppo “inglese”».
Nell’epoca in cui nacque l’amicizia tra Ettore e Federico, quest’ultimo cominciava a essere noto nel cinema: «Aveva collaborato con Sergio Amidei per le sceneggiature di Roma città aperta e di Paisà di Rossellini. Come sceneggiatore era stato “negro” di Metz e Marchesi, una ditta inarrestabile, che sfornò qualcosa come duecento film. Lavoravano ogni giorno dalle 9 alle 20 all’Hotel Moderno, dietro al Teatro Quirino, dove avevano trasformato una camera matrimoniale nel loro studio. Anch’io, in seguito, feci il “negro” per loro. Buttavano giù copioni striminziti e a noi toccava infarcirli di battute».
Oggi a Scola preme segnalare che Federico «non era un apolitico, come hanno spesso voluto dipingerlo. Criticò il fascismo, il maschilismo e altri vizi sociali. E nell’ultimo periodo attaccò con furore la pratica dell’inserimento degli spot pubblicitari nei film trasmessi dalle tivù berlusconiane». Non tutti hanno visto i film di Fellini, ma il suo universo è in ciascuno di noi, afferma Scola: «C’è anche chi non ha mai letto Leopardi, ma in tutti vivono tracce di sentimenti leopardiani. Così succede col cinema di Fellini, a cui dobbiamo tanta parte della nostra immagine del mondo. Dato che è impossibile ricostruire “dall’interno” il visionario Federico, ho provato a scovare angoli e angolini da cui il suo cinema ha preso forma per dare forma anche alla nostra vita».