Marisa Fumagalli, Corriere della Sera 24/08/2013, 24 agosto 2013
«TRADITORE IN AMORE, MAI NELLE MIE IDEE» - «Sì
sono arrivato a cent’anni, ma, per favore, non fatemi il monumento. La verità è che parlano bene di me in mia presenza, mi celebrano perfino; non giurerei sulla sincerità di tutti i pubblici estimatori. Non vedo l’ora che i festeggiamenti finiscano, mi rubano il tempo», attacca il grande vecchio, più in forma che mai (lo mostra il testo che pubblichiamo nella pagina accanto, scritto appositamente per il «Corriere della Sera»). Lunedì sarà il compleanno di Boris Pahor, classe 1913. Triestino. Sloveno per lingua e cultura. Fiero della sua identità. Autore scomodo, uomo indomito, sopravvissuto alle atrocità dei lager nazisti. Antifascista, anticomunista, anticonformista. Una vita da romanzo, la sua, raccontata in numerosi libri. Il più noto è Necropoli, ambientato nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, in Alsazia. Non l’unico lager della sua prigionia. Il primo fu Dachau.
L’Italia ha scoperto tardi le opere (i primi a tradurle furono i francesi) e con esse il personaggio. Riconoscimento tardivo, ma fruttuoso. La pubblicazione dei suoi libri in italiano («lingua che ho pure insegnato, scrivo in sloveno per principio») avviene ormai con cadenze regolari. A ottobre, per Bompiani uscirà l’autobiografia: Così ho vissuto. Il secolo di Boris Pahor.
Incontriamo lo scrittore a Trieste, alla vigilia del traguardo centenario. «Sto bene, anche se il cuore va tenuto sotto controllo — dice —. Ho trascorso un paio di mesi in una località termale slovena. Mi sono rilassato, ho preso mezzo chilo di peso. Meglio così».
Pahor è magro, agile, cammina spedito. Per le vie della città, diretti verso il luogo che gli è più caro nel dolore dei ricordi, non perde un passo. Il fotografo si offre di portargli la cartella e lui, quasi, si sorprende. Siamo davanti all’imponente edificio che fu la sede del Narodni Dom, la «casa» degli sloveni. Prima tappa della Via Crucis di Pahor. «La prima violenza subita». Nel luglio del 1920, l’importante Centro di Cultura sloveno fu incendiato dai fascisti. «Vero battesimo dello squadrismo organizzato», nelle parole dello storico Renzo De Felice.
Un atto di sopraffazione, assurto a simbolo del genocidio culturale di un popolo. «Ero bambino quando, improvvisamente fummo costretti a diventare italiani», afferma Pahor guardando il palazzo, oggi sede di una scuola di lingue. «La giovinezza distrutta dal fascismo. Peggiore della sofferenza che mi è stata inferta nei campi nazisti», riflette. Il grande vecchio ne ha patite tante, ma questo è il fatto che gli è rimasto dentro, indelebile. Non sopporta che venga sottaciuto o, peggio, rimosso. Se si parla o scrive di lui, la distruzione forzata dell’identità impostagli dalle squadracce di Benito Mussolini deve emergere, chiara. Non compariva nella «motivazione di merito» quando, nel 2009, l’allora sindaco di Trieste Roberto Dipiazza avrebbe voluto conferirgli il Sigillo, massima onorificenza cittadina. Dunque, non se ne fece nulla. «Il mio non fu un gran rifiuto, ma una condizione imposta», sottolinea Pahor. Il Sigillo, l’ha avuto ora per i suoi cent’anni, dal nuovo sindaco Roberto Cosolini. Al quale, tuttavia, si è rivolto con una lettera aperta, mettendo i puntini sulle i: «Onorato e contento, la concessione di meritorietà che mi riguarda di fatto va alla mia lingua, alle mie opere che, tradotte, sono alla base del nuovo rapporto tra le due principali componenti linguistiche e umane conviventi in questa città. Unica in passato, era già un’Europa unita in miniatura. Ciò che spero col tempo diventerà». Afferma, Pahor: «L’aver combattuto per l’onore degli sloveni, denigrati in ogni modo, è l’eredità pubblica che mi preme lasciare. A lungo ci hanno chiamato schiavi, considerandoci cimici da schiacciare. Finalmente, siamo uguali agli altri, il mio popolo ha il posto che merita».
Con Pahor, non è facile far virare il discorso verso la dimensione privata. Ma qui conviene raccontare la storia di un uomo che ha avuto amori intensi (il primo è per Arlette, l’infermiera francese incontrata dopo il lager, durante il periodo passato in sanatorio per curare la tubercolosi), anteponendo tuttavia il bene assoluto della libertà, pagata a caro prezzo. Al punto che, nel 1952, andando a nozze con Rada Premrl («assomigliava a Ingrid Bergman»), pur convinto del legame, Pahor chiarì subito alla sposa di non credere nell’amore eterno. «Sono stato infedele, in 58 anni di matrimonio — rammenta —. Lei, pur intuendolo, non me lo ha mai fatto pesare. Mi accoglieva sempre a braccia aperte, seguendo una massima di Colette: meglio infelice con te che senza di te. Ho voluto bene a Rada, mancata nel 2009, ma avrei potuto essere un marito migliore». Nonno affettuoso di due nipoti, si critica come padre. «Non sono stato un modello. Forse mi è mancato il senso di paternità. I due figli da me non hanno avuto coccole. Li ho trascurati per dedicarmi a me stesso e alla scrittura. Penso, però, che mi abbiano perdonato. Oggi sono fieri del mio successo letterario».
Affetti familiari complessi, rapporti difficili. Veri. La verità al pari della libertà è un principio cardine per Pahor. La religione? Risponde: «Sono religioso, non credente. La mia è una religiosità cosmica. Sto dalla parte di Spinoza. Non credo nell’aldilà, è un’invenzione per illudersi di andare oltre la vita, poiché l’idea della fine sembra un’assurdità». Ha paura della morte? «No, non ho paura della morte in sé. In molti casi, il trapasso avviene senza traumi. Non c’è neppure il tempo di rendersene conto. Ciò che mi sgomenta è il nulla che segue alla morte. La paura di diventare, all’improvviso, niente. Oggi sono una persona che ha vissuto molte esperienze drammatiche, un essere che pensa, prova emozioni. E tanto altro ancora. Domani sarò il niente».
Lo scrittore, che si definisce «socialdemocratico di stampo scandinavo», vede un orizzonte incerto per l’Italia, il suo Paese, comunque. «Manca una vera destra europea, la sinistra è confusa, Berlusconi ha rovinato il centro. Mi stupisce come molti italiani credano sommamente nel denaro e nella furbizia», taglia corto. Siamo al congedo. Questa volta non andrà in autobus per raggiungere le colline di Prosecco, frazione di Trieste, dove abita. Lo accompagna un tassista: a casa troverà la crema di verdura che una signora gli prepara, abbondante, così da durare più giorni. «La metto nei vasetti e la surgelo», spiega. E domani? «Alle 9 sarò al mio tavolo, a battere sui tasti della Remington Deluxe. Ho ancora molto da scrivere».
Marisa Fumagalli