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 2013  agosto 24 Sabato calendario

LA CAPRIA: «IO, ROSI, NAPOLITANO E GHIRELLI: I RAGAZZI DEL LICEO UMBERTO»

Si erano conosciuti nei corridoi del Regio Liceo classico Umberto I, istituto d’eccellenza, di ispirazione laica, frequentato dai rampolli dell’élite liberale e illuminata della Napoli bene: «Vi si respirava un’aria di opposizione al fascismo, era un luogo privilegiato, c’erano i figli della buona borghesia partenopea». Poi era arrivata la guerra. E subito dopo, seguendo inclinazioni, desideri e soprattutto la necessità di trovare lavoro, si erano ritrovati tutti nella capitale, in quei favolosi anni ’50 in cui «ognuno di noi cominciò a diventare quello che voleva essere». Del gruppo, spiega Raffaele La Capria, classe 1922, «napoletano di Roma», come l’hanno spesso definito, facevano parte «ragazzi eccezionali come Francesco Compagna, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi. In un’altra classe, non la mia, c’erano Francesco Rosi, Achille Millo, e il Presidente Giorgio Napolitano. Gente di qualità. Ci incontravamo alla fine delle lezioni, andavamo a giocare a pallone nella Villa Comunale, che è a due passi, e discutevamo di politica, ma soprattutto di libri e di letteratura perchè per noi era quella la chiave migliore per capire il mondo. In quell’epoca, sotto il regime, chi aveva cultura veniva subito bollato come un potenziale antifascista».
Durante il conflitto, nei momenti più difficili, quelle nozioni servirono letteralmente a sopravvivere: «Nel ’43 fui chiamato alle armi, mi ritrovai in Puglia, a Mesagne, nell’entroterra di Brindisi, una zona considerata “d’operazione”. Sotto le tende degli accampamenti io e Ghirelli ci distraevamo traducendo André Gide». Quando tutto finì, nella Napoli appena uscita dall’incubo dei bombardamenti, ci fu un’«esplosione di vitalità, si ballava il boogie woogie per strada, le ragazze, truccate come dive hollywoodiane, se ne andavano in giro strette ai loro soldatini americani». Iniziarono «le stagioni estive dei circoli nautici e della pesca subacquea». Quelle di Ferito a morte , il romanzo (pubblicato nel 1961) in cui La Capria riviveva l’incanto nostalgico della giovinezza napoletana. Pezzo di vita sospeso per sempre nel ricordo, consumato insieme agli amici, leoni al sole, tra barche, nuotate e sfide implacabili con una fauna marina misteriosa e rigogliosa.
Più tardi, uno dopo l’altro, i ragazzi del Liceo Umberto realizzarono sogni e ambizioni, Roma li aspettava a braccia aperte, con i suoi mille punti d’incontro, con la Via Veneto della Dolce vita, con gli intellettuali di ogni parte d’Italia e del mondo, con Rossellini, De Sica e gli attori di Hollywood. Una giostra variopinta dove tutto brillava di intelligenza e divertimento. E dove tutto sfumava, magari nell’arco di pochi giorni, come successe quella volta con Marlene Dietrich: «Era arrivata in Italia con l’obiettivo di conoscere Luchino Visconti e farsi scritturare per un suo film. Lui aveva da fare, così Marlene era stata affidata a una squadra di giovani che avrebbero dovuto intrattenerla. All’inizio facemmo a gara, ma durò poco. Dopo qualche sera ci eravamo già stancati». Così la diva inarrivabile divenne in breve un impegno da scaricare sugli altri, un’incombenza come tante: «Chi esce stasera con la Dietrich? Vai tu? No io non posso, ho da fare, e poi ci sono andato a cena l’altra sera, adesso tocca a te...». La capitale accoglieva e inghiottiva tutto, i confronti erano memorabili, bisognava dividersi tra gente del calibro di Federico Fellini, Alberto Moravia, Ennio Flaiano. Le giornate iniziavano in centro, ai tavolini dei bar di via Veneto, spesso si allungavano sulle spiagge di Ostia e di Fregene: «Lavoravo alla radio, lo facevano in tanti, fra gli intellettuali dell’epoca, si collaborava per guadagnare qualcosa...».
Le conversazioni erano infinite, ma «i racconti più belli ce li aveva sempre Fellini, era un gran seduttore, ideava storie straordinarie. Una volta ci parlò del suo amore per la madre e della sua totale identificazione in lei. Ci disse che da bambino la accompagnava spesso dalla sarta e un pomeriggio, mentre aspettava in un’altra stanza che finisse la prova di un vestito, la sentì dire “ahi”, per via di una puntura di spillo. In quell’attimo, Federico bambino, in attesa, dall’altra parte del muro, provò un acuto dolore al braccio e vide spuntare una macchiolina di sangue... una storia surreale, bellissima». Si restava inchiodati ad ascoltare, fino alle due o alle tre di mattina: «C’era un’incredibile gioia di vivere, ma forse oggi confondo la bellezza di quella vita sociale con la bellezza della giovinezza». I miracoli erano all’ordine del giorno: «Scrivevi una sceneggiatura e per un mese o due diventavi un ricco signore, potevi comprarti una spider e scarrozzare le ragazze. Io ci ho portato subito Ilaria Occhini, poi diventata mia moglie». Una ragazza splendida che, dopo aver interpretato lo sceneggiato Jane Eyre nella tv degli albori, era diventata improvvisamente popolarissima: «Non riuscivamo mai a stare un po’ da soli, come due innamorati. Ilaria era l’idolo degli italiani e quando uscivamo ci ritrovavamo dietro una piccola folla»
Quando gli Anni 60 diventarono 70, il panorama, irrimediabilmente, cambiò, colpa «delle ideologie, e della politica terribile che ci avvolgeva tutti. La felicità diminuì, succedevano cose che facevano male. L’estremismo, con le Br, finì per avere la meglio e portò morte, divisione, fuga dalla gioia. La morte di Moro segnò la fine di tutto...». Adesso è diverso, e non solo perchè l’età non è più quella di allora: «Oggi è l’epoca dei computer, si sta insieme in quel modo, e qui, mi viene da dire, chiudiamo mestamente». Fino a un certo punto, perchè La Capria e Occhini, ancora sentitamente insieme, non danno per niente l’idea di un passato sfiorito. E così gli amici di un tempo, come Napolitano e Rosi, exalunni del Liceo Umberto I, i più brillanti, i più orgogliosi delle loro idee