Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 25/8/2013, 25 agosto 2013
PIER PAOLO E L’AFRICA AL PIGNETO
Il poeta corre e traccia linee immaginarie. Abbandona gli ozi della troupe e nelle pause di Accattone, con la borgata Gordiani sullo sfondo, gioca a calcio. Alza altra polvere sul terzo mondo. Sull’Africa che sorge alla periferia di Roma. Sulle baracche che guardano “da basso” i palazzoni della neospeculazione. Le case costruite dalle braccia di chi non ha niente e a nulla che non sia sopravvivenza miserabile, ha il diritto di aspirare. Ancora non ha discusso con Sartre del Marxismo incapace di fare i conti con il cristianesimo. Delle reazioni isteriche al Vangelo Secondo Matteo in terra di Francia: “È un film fatto da un prete per i preti”. Dell’ipotesi di girare in Algeria quel che invece venne fissato in bianco e nero nella Matera dei primi anni 60. Delle insanabili ingiustizie o delle odiose contraddizioni che ne La ricotta fanno azzardare a Orson Welles che “crepare – per Cristo – è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione”.
LA BLASFEMÌA profondamente religiosa di Pier Paolo si nutre di simboli e gesti. Di ascesi sventolate con indifferenza. Non ha bisogno di mangiare e mentre “gli altri sudano sul cestino – come ricorda l’assistente alla regia Bernardo Bertolucci – per inseguire un pallone per ore a Pasolini basta mezza mozzarella”. È nervi e vento e nell’aria, insegue il suo tormento. L’Africa: “Lo stupendo e immondo sole che illumina il mondo”. L’Africa: “Un concetto”. L’Africa: “Unica mia alternativa” mentre la purezza originaria, tutt’attorno, trasmuta in compromesso. Per risolvere un’equazione senza risultato, anche Enrico Menduni e Gianni Borgna, curatori di Profezia – l’Africa di Pasolini documentario dell’Istituto Luce invitato dal Festival in “Venezia Classici”, hanno dovuto affrontare un’ipotesi. Meno pessimistica di quella originaria, ma dal finale ancora aperto sulle immagini contemporanee dell’Egitto in piazza, impegnato con un occhio a piangere l’inutile, selvaggia contabilità della morte e con l’altro, esattamente come gli “Alì dagli occhi azzurri” dei versi di Pasolini in Profezia, a sorridere innalzando al cielo lo stolto canto pseudoliberatorio per il “massacro dei re”.
Il regista cercò invano la chiave per il suo film africano “Appunti per un poema sul Terzo mondo” da girare in 5 episodi. Al Continente sarebbe toccato “il rapporto tra la cultura bianca del mondo industrializzato e quella nera, arcaica e preindustriale, con il conseguente conflitto, drammaticamente ambiguo”. Cercò per anni. Inconsciamente (Ne La sequenza del fiore di carta del 1967, in una Roma già trafficatissima, Davoli passeggia innocente e balla un twist in via Nazionale, mentre su di lui scorre il chroma key delle atrocità vietnamite, dei campi di concentramento nazisti e delle adunate d’Africa) e attraverso le frontiere, trascinando Carmelo Bene e Silvana Mangano nel Marocco sahariano di Ourzazate, Gian Vittorio Baldi in Tanzania, il suo “Ninetto” e Franco Citti tra Eritrea ed Etiopia. Un’esigenza. L’urgenza di un’opera che tracciasse un segno indelebile sulla radice universale dell’esistenza. Un affresco “transnazionale” che desse forma all’intuizione di Marc Bloch: “L’incomprensione del presente nasce dall’ignoranza del passato” e che nel lavoro di Borgna e Menduni, colmo di magnifico, raro repertorio, si traduce da ossessione di un legame ancestrale in dato oggettivo. In una sintesi forzata. Imperfetta, ma ineluttabile.
SENZA DELITTI gratuiti, riemersioni “dal mare per aggredire”, distruzioni di Roma sulle cui rovine “deporre il germe della Storia antica”. Un’annessione dolce, perché la “povera libertà” degli africani decolonizzati, di cui dubita Bassani ne La rabbia fa “sorridere l’Europa” ed è meno di una vittoria di Pirro. Una transumanza obbligata e senza gioia attraverso il Mediterraneo, in fuga dalle tragedie, per dar vita a un multiculturalismo senza scambio reale. La riedizione di una guerra tra poveri in cui tra il Pigneto e Casablanca, anche a distanza di mezzo secolo, corre lo stesso iato che passa tra i sogni e la loro realizzazione. Pasolini (riletto in Profezia con vera passione da Herlitzka e Maraini) l’aveva capito : “Malgrado le abissali diversità, sia in Africa che in Occidente le disuguaglianze sono stridenti e i totalitarismi in declino difendono con disperata violenza i loro privilegi”.
Oggi come nel ’64. Borgna e Menduni non possono far altro che dimostrare come tra i lugubri caroselli in Piazzale Loreto e i ritratti di Gheddafi abbandonati nella spazzatura, tra un colpo di mitra e un’impotenza che ha paura e conosce il solo coraggio del colpo di fucile a nemico schiacciato, non esista differenza. Sono le illusioni a trionfare. Quelle secolari dei personaggi di Accattone: “Viva la faccia di noi ladri che sappiamo sempre dove attaccasse, ab-basta allungà la mano e pijamo sempre”, dei soldati intervistati per Comizi d’amore : “In questa società se non sei un Don Giovanni, sei un fallito”, delle marionette di Cosa sono le nuvole prodotto da De Laurentiis, l’ultimo film interpretato per il gran friulano da Totò. Il prìncipe pronuncia una battuta più felliniana che pasoliniana: “Noi siamo in un sogno dentro un altro sogno”, ma vecchio e malato, muore prima di vederlo.
Mentre PPP cammina tra le dune di Sabaudia e la sua voce soffia al ritmo di un impetuoso gennaio: “Sono stato razionale e sono stato irrazionale, fino in fondo”, sullo schermo passa e commuove, la sua generosa incoscienza.
RETORE senza retorica. Pedagogo. Allievo e maestro dei suoi stessi carnefici. Capace di volare in Yemen come a Orte per sublimare la forma di un incubo o il profilo di una città e prenderle con un bastone fino a sanguinare in una scena de Il gobbo di Lizzani così cruda e profetica da far male. Ha ragione Bertolucci, presidente di giuria veneziana e prodigo cantore dei suoi primi passi al fianco di Pier Paolo quando sincero confessa che Pasolini: “Rifondava il linguaggio” con l’animo di un pioniere “o di un falso naïf che per la prima volta guardava nel buco nero della macchina da presa. Per me, il suo primo piano rappresentò davvero il “primo” primo piano dell’intera storia del cinema”. Mamma Roma guardava distratta. L’Africa, silenziosa, aspettava in giardino.