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 2013  agosto 25 Domenica calendario

NUMERI, COLORI, OPPURE FIORI TUTTI I SIMBOLI DELLE RIVOLTE

Chi non è morto o ferito, chi non è in galera o lati­tante rincomincia da «arbaah», da quattro. 
Quattro dita alzate al cielo. Quattro dita simbolo della strage, ma anche della determinazio­ne a lottare. Ar­baah, quattro in ara­bo, è anche l’ana­gramma di Rabaah, la piazza dove mer­coledì 14 agosto cen­tinaia di militanti della Fratellanza Musulmana cado­no negli scontri con l’esercito. Da mer­coledì quel luogo ha preso il posto di Piazza Tahrir nei cuori di chi conti­nua a credere alla Fratellanza, al depo­sto presidente Mor­si e all’ormai impo­polare messaggio integralista. E così quell’anagramma, quel numero, quel­le quattro dita, soc­chiuse furtivamen­te­o esibite spavalda­mente, sono la nuo­va icona dell’intifa­da fondamentali­sta.
Un piccolo gesto, un anagramma ba­nale, una cifra sen­za significati esoteri­ci, ma essenziale ­come ogni simbolo - per restituire iden­tità, ricostituire il senso di apparte­nenza, trasmettere voglia e capacità di lottare.
Il primo a capirlo è l’imperatore Co­stantino pronto a giurare di aver visto disegnate in cielo la croce cristiana e la scritta «in hoc signo vinces», prima del­la battaglia di Ponte Milvio. Di un segno continuano ad aver bisogno, 17 secoli dopo, rivoluzionari e militanti, condottieri e ribelli. Se in Egitto ora regna la legge del quattro, in Birmania dissi­denti e seguaci di Aung San Suu Kyi hanno creduto per 25 anni alla magia del quadruplo 8, di quella data dell’8 agosto 1988 ri­cordata come l’inizio della sol­levazione contro la dittatura militare. Allora il simbolismo dell’8.8.88 contribuisce non so­lo a preoccupare il dittatore Ne Win, abituato a circondarsi da aruspici e fattucchiere, ma an­che a regalare ai dissidenti la convinzione di appartenere ad una generazione dell’88 capa­ce di sollevarsi contro gli op­pressori.
Dodici anni dopo le folle ser­be esasperate da Slobodan Mi­losevic e dalla sconfitta del Ko­sovo non guardano all’evanescente cabala dei numeri, ma al­la sorda rabbia dell’operaio Lju­bisav Lukic pronto a salire su una ruspa e guidare la marcia verso il palazzo presidenzialedell’ottobre 2000. La ruspa del signor Lukic diventa così il sim­bolo dell’esasperazione serba, della voglia di farla finita con un presidente considerato un tempo il salvatore della patria.
 Ma i nuovi simboli nascono anche dalla rimozione di quelli passati. Succede a Timisoara, la città rumena dove nel Natale ’89 scoppia la rivolta contro Ni­colae Ceausescu. Lì l’emblema della «rivoluzione» è la bandie­ra bucata, la bandiera con i colo­ri nazionali d­a cui i rivoltosi ritagliano l’odiato simbolo del par­tito comunista. La incontri ai posti di frontiera caduti sotto il controllo dei rivoltosi, la ritrovi ad ogni barricata, la vedi sven­tolare sul palazzo dell’Opera, sede del comitato rivoluziona­rio di Timisoara. Sedici anni pri­ma un colore, il giallo, accende invece la voglia di libertà dei fi­lippini. Tutto inizia nell’agosto 1983 quando la popolazione an­noda migliaia di nastrini gialli ai lati delle strade per salutare il ritorno di Benigno Aquino, un senatore dissidente deciso a rientrare dall’esilio e sfidare il dittatore Marcos. Aquino man­co li vede perché un cecchino del regime lo assassina non ap­pena sbarcato all’aeroporto di Manila. Quei nastrini gialli di­ventano il simbolo della prote­sta pacifica guidata dalla vedo­va Corazon Aquino, che nel feb­braio 1986­vince le elezioni pre­sidenziali e mette fine alla ditta­tura.
Da quel momen­to rivoluzioni e rivol­te diventano un ar­cobaleno. Nell’au­tunno 2004 l’aran­cione delle foglie d’ippocastano am­monticchiate ai bor­di delle strade di Kiev diventa il colo­re della rivolta ucrai­na. Ad accenderla il 21 novembre, al ter­mine del voto presi­denziale, è lo sfidan­te Viktor Yu­shcenko denun­ciando i brogli, con­testando la vittoria di Viktor Yanuko­vic, delfino dell’ex presidente Leonid Kuchma, e chieden­do ai suoi di scende­re nelle strade fino alla ripetizione del­le consultazioni. Da quel momento sciarpe, nastrini e foulard arancioni colorano l’inesauri­bile, ma pacifica mo­bilitazione di piaz­za che spinge­la Cor­te Suprema a invali­dare il risultato e fis­sare le nuove elezio­ni vinte, alla fine, da Jushcenko.
 Cinque anni do­po un altro colore, il verde, diventa l’em­bl­ema dell’indigna­zione dei manife­stanti di Teheran convinti che la riele­zione del presiden­te Mahmoud Ahma­dinejad sia frutto di una frode. Ma quel verde,bandiera del­l’islam, si mescola al rosso del sangue di Neda Soltani, una ragazza centra­ta da un cecchino delle milizie pro governative dei Basiji mentre attraversa una strada occupata dai dimo­stranti. Nada, vittima innocen­te, diventa la nuova icona della rivolta, la tragica impersonifi­cazione della spietata repres­sione con cui Teheran cerca di spegnere la protesta popolare.
Due anni dopo a Sidi Bouzid, nel cuore della Tunisia profon­da, s’accende una rivoluzione segnata da un volto e da un fio­re. Il volto è quello di Moham­med Bouazizi, un giovane ven­ditore ambulante pronto a sa­crificarsi con il fuoco pur di non subire più le angherie di chi continua a multare il carret­to di verdure senza licenze con cui si guadagna da vivere. Il fio­re è il gelsomino, icona di una ri­voluzione capace di fiorire dal­la periferia di Sidi Bouzid fino al cuore di Tunisi mettendo in fuga il presidente Ben Alì e contagiando - in una sorta d’imma­ginifica primavera - le piazze dell’Egitto e degli altri Paesi ara­bi.