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 2013  agosto 25 Domenica calendario

COMPETITIVITA’, L’EUROPA BOCCIA ANCHE LA LOMBARDIA

«Ma ’ndo vai se la banana non ce l’hai?». Dall’avanspetta­colo zeppo di doppi sensi al­l’economia a senso unico, quel­lo del ritornello ossessivo-re­cessivo, il passo può essere bre­ve. Brevissimo. Soprattutto se si viene a scoprire che la Lom­bardia non fa più parte del club della cosiddetta «Banana blu, la dorsale economica doc simi­le appunto al frutto tropicale (il colore rimanda invece a quello della bandiera europea) che collegava - via Benelux e Bavie­ra - la grande Londra alla nostra regione più produttiva.
 Insomma: abbiamo perso l’unico bollino d’eccellenza an­cora rimasto, la sola medaglia di caratura internazionale da appuntare al petto del nostro sfilacciato tessuto economico. Un’umiliazione per l’homo fa­ber lumbard inflitta dall’ulti­mo rapporto Ue sulla competiti­vità, da cui è però soprattutto l’Italia a uscire a pezzi, sempre più inghiottita verso la parte estrema della classifica. Le cifre raccontano già tutto: sui 262 posti della graduatoria, la Sici­lia occupa il 235esimo, e il grafi­co qui accanto è una perfetta sintesi della nostra situazione; la Lombardia, la prima tra le regioni italiane, non rientra nep­pure nella top 100 scivolando mestamente dal 95esimo al 128esimo gradino, a distanza si­derale dalle prime della classe (olandesi, inglesi e svedesi). Colpa di Mario Monti, attacca il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, di una «linea basata soltanto sul rigore e sul­l’aumento della pressione fisca­le, che ha penalizzato il Nord e, in particolare, la Lombardia e il suo sistema produttivo».
Più in generale, il rapporto è «una fotografia impietosa dello stato delle regioni italiane. Di come il Centro-Nord abbia per­so competitività e si trovi in diffi­coltà­ fanno rilevare fonti euro­pee - . E l’indicatore, seppure non sia basato su dati freschissi­mi (2010-2011-2012) è uno stru­mento utile per preparare la nuova programmazione». Non a caso, nonostante i tagli del bu­dget Ue 2014-2020, l’Italia è riu­scita comunque a strappare 29,238 miliardi, più o meno una cifra analoga al passato, proprio perché le sue regioni, anche le più sviluppate, hanno problemi.
 Nulla in fondo di cui stupirsi, se solo si ricorda che la Peniso­la, rispetto ai livelli pre-crisi, ha perso circa 8 punti di pil e non è ancora uscita dalla recessione; che il tasso di disoccupazione veleggia sopra il 12%, con pun­te di quasi il 40% tra i giovani; che le aziende, vuoi per un ac­cesso al credito bancario com­plicato come una corsa a osta­coli, vuoi per una pressione fi­scale insostenibile, hanno pra­ticamente smesso d’investire e, dunque, di fare impresa. Poi, nel calderone possiamo butta­re pure le riforme strutturali mai fatte e quelle nate male o pa­sticciate, ma è tutto il «sistema Italia» a mostrare falle. Messe a nudo dal lavoro di cesello della Commissione Ue. Che, come è ovvio, guarda alla capacità del­le imprese di stare sul mercato, espandersi e fare profitti. Ma un occhio viene posto anche su altro: dalla qualità delle istitu­zioni, alla stabilità macroeco­nomica; dalle infrastrutture al sistema sanitario;dal grado del­l’istruzione all’«efficienza» (università, mercato del lavoro, eccetera), fino all’«innova­zione» intesa anche come livel­lo tecnologico.
 Insomma: da come l’Italia è messa, per risalire la china ser­ve uno sforzo titanico. Quasi come raddrizzare una banana.