Bruno Gambarotta, La Stampa 25/8/2013, 25 agosto 2013
ARRIVA LA PLASTICA LA MODERNITÀ ALLA PORTATA DI TUTTI
Se chiediamo a un nostro connazionale di compilare a memoria un elenco di italiani vincitori di un premio Nobel, dalla sua lista più o meno lunga mancherà sempre un nome: quello di Giulio Natta, vincitore del Nobel per la chimica il 12 dicembre 1963. Eppure quello della chimica è un Nobel pesante e Natta è stato l’unico italiano ad averlo vinto. Quali sono le ragioni di questa ingiusta dimenticanza?
Nel 1963 l’industria chimica italiana è la quinta al mondo, cinquanta anni dopo c’è da scommettere che persino le scatole del «Piccolo chimico» sono costruite a Singapore. Un altro fattore è il carattere dell’uomo: nato il 26 febbraio 1903 a Porto Maurizio, figlio di un magistrato, Giulio Natta incarna le migliori doti dei liguri: riservato, concreto, allergico alle luci della ribalta, perfezionista, grande manager della ricerca, aveva convinto Piero Giustiniani della Montecatini a investire un milione di dollari (di allora) nello sviluppo dell’invenzione che gli avrebbe fatto vincere il Nobel, il polipropilene isotattico, una resina termoplastica ottenuta nel 1954. Avrebbe avuto qualche argomento per atteggiarsi a demiurgo, quando, in occasione del premio, scrissero che Natta «aveva messo a punto la materia che Dio si era dimenticato di creare».
Per tramandare ai posteri il suo nome Natta avrebbe potuto seguire l’esempio di un suo predecessore, il belga Leo Backeland che nel 1907, dalla formaldeide e dal fenolo, creò una nuova materia plastica battezzandola «bachelite». Quel nuovo materiale, che negli Anni Sessanta toccò il picco di 61 milioni di tonnellate prodotte dallo stabilimento di Ferrara della Montecatini, avrebbe potuto chiamarsi il Natten; invece fu il Moplen e dal 1957 invase il mondo, facendo di quell’epoca il decennio della plastica.
I residuali riflessi mefistofelici dell’impresa di Giulio Natta vennero fugati dall’immagine di Gino Bramieri che pubblicizzava il Moplen in versione domestica, in quei caroselli visitabili su Internet; in rapidissima successione di stacchi, Bramieri, ogni volta conciato diversamente (anche da casalinga), impugna, abbraccia, esibisce manufatti nel nuovo stupefacente materiale e scandisce lo slogan «E mo’ e mo’ e mo’... Moplen». Nell’ultima inquadratura Bramieri, capovolge un secchio e mentre l’operatore zooma sul marchio, esorta: «Ma signora badi ben, che sia fatto di Moplen!».
Il Moplen, bianco e immacolato, era la modernità. Quelle tinozze di zinco, nelle quali da bambini avevamo fatto il bagno, portate infinite volte dal fabbro perché ne stagnasse i buchi, finirono, piene di terra, sui balconi a ospitare i pomodori, il rosmarino, il basilico. Le materie plastiche sono sostanze che si rammolliscono con il calore e si induriscono in una forma definitiva adattandosi a uno stampo. Fateci caso, gli oggetti di plastica sono rastremati, perché così è più facile estrarli dagli stampi. Fu una vera rivoluzione, mise alla portata di tutti manufatti che prima erano privilegio delle classi abbienti; in poco tempo scomparve un mondo fatto di rappezzi, rammendi, riparazioni, recuperi di pezzi «ancora buoni», di oggetti cannibalizzati, trasformati in donatori di organi. Un manufatto di plastica che si rompe non si ripara, si butta. Sì, ma dove? Intanto buttiamolo, avremo tempo per pensarci.
Fin dagli Anni Venti era stato celebrato il felice matrimonio tra le materie plastiche antenate del Moplen e il design: solo in Italia, furono registrati 20.000 brevetti dei nostri designer e fra questi ben 900 per lampade. Ne trovate molti esempi esposti al Moma di New York. Parallelo al boom della plastica fu lo sviluppo impetuoso della motorizzazione. Plastica e motori avevano un unico padre, il petrolio. Il 6% del greggio estratto finisce in plastica; le lunghe catene di molecole generate dall’etilene grazie ai catalizzatori di Ziegler-Natta (l’austriaco Karl Ziegler divise con Natta il Nobel), sono prodotti della raffinazione del petrolio. Il sorpasso di Dino Risi è dell’anno prima (1962): in quel film Vittorio Gassman va a fare rifornimento in un distributore dell’Agip (Enrico Mattei li volle uguali in tutta Italia) e, sull’inquadratura del marchio, pronuncia lo slogan inventato da Ettore Scola, uno degli sceneggiatori del film: «Cane a sei zampe amico fedele dell’uomo a quattro ruote».
Eravamo tutti innocenti. Per quale motivo il progresso avrebbe dovuto arrestarsi e quella plastica, così democratica e amichevole, così bella e indistruttibile, avrebbe dovuto insidiare il nostro roseo futuro? Per la verità qualcuno fin da subito avvertì i pericoli insiti nella sospetta duttilità, nell’uso proteiforme di quella materia troppo arrendevole. Un grande artista come Alberto Burri realizzò in quello stesso 1963 la sua Grande plastica : la trovate, issata come uno stendardo, in una sala di Palazzo Albizzini di Città di Castello, in modo da rendere visibili il verso e il recto, dove la plastica si raggrinza e accartoccia ritirandosi inorridita per l’azione del calore lasciando buchi e vortici. Da parte sua il critico e semiologo Roland Barthes già nel 1957 aveva dedicato alla plastica uno dei suoi Miti d’oggi : «La plastica è una sostanza casalinga. È la prima materia magica che ceda alla prosaicità; (...) per la prima volta l’artificio ha di mira il comune, non il raro. La plastica è interamente inghiottita nell’uso: al limite si inventeranno oggetti per il piacere di usarli».
Per la verità anche nell’uso comune la parola «plastica» viene usata sempre più frequentemente con connotazioni negative, in contrapposizione a «autentico», «organico», «vivente», «umano». Da qui espressioni come «partito di plastica», «donna di plastica», «cibo di plastica». Infine, il crescente allarme ambientale ha trovato nella plastica il nemico ideale. Una delle sue virtù – l’indistruttibilità – è diventata la sua maledizione. Al defluire delle acque di un fiume dopo un’esondazione, sui rami degli alberi prima sommersi osserviamo dei frutti diabolici, tanti sacchetti di plastica mossi dal vento e un mantra ci rintrona nelle orecchie: quei sacchetti impiegheranno mille anni a dissolversi completamente. Ci sarebbe poi anche un’isola in mezzo al Pacifico dove si raccoglie tutta la plastica rovesciata in mare e che diventa ogni giorno più grande... Ma se tutta la plastica che ci circonda per una magia scomparisse di colpo, il nostro universo si dissolverebbe.