Vittorio Sabadin, Stefano Rizzato, La Stampa 25/8/2013, 25 agosto 2013
DONNE, ALCOL E PLAGI IL DISCORSO DEL SOGNO È NATO ANCHE COSÌ
Dodici ore prima di salire sul palco al Lincoln Memorial, Martin Luther King ancora non sapeva che cosa avrebbe detto nel suo discorso. I preparativi della marcia su Washington avevano richiesto così tanto tempo che né lui né chi lo aiutava a scrivere i testi, gli avvocati Stanley Levison e Clarence Jones, avevano avuto il tempo di occuparsene. King era il sedicesimo oratore sui 18 che dovevano parlare e il discorso non sarebbe stato un problema. Ne faceva tre o quattro al giorno da anni, ripetendo gli stessi concetti e adattandoli ai luoghi: figlio di un predicatore, conosceva l’arte oratoria e l’efficacia dell’anàfora, la figura retorica che ripete più volte una frase per amplificarne l’effetto.
Il tema del sogno di una società priva di discriminazioni era ricorrente nei suoi discorsi fin dal 1961 e pochi giorni prima era stato al centro di un intervento alla Cobo Hall di Detroit. Il testo preparato all’ultimo momento con Levison e Jones per la marcia di Washington si ispirava alla Bibbia e a Isaia, citava l’inverno dello scontento di Riccardo III e copiava il finale da un discorso tenuto nel 1952 da Archibal Carey alla Convenzione repubblicana, un’elocuzione pirotecnica incentrata sull’inno patriottico «My Country ’Tis of Thee». Ma nelle pagine battute a macchina che King cominciò a leggere alle persone assiepate sul Mall non c’era alcuna traccia di sogni.
Fu la cantante di gospel Mahalia Jackson, che si trovava proprio davanti al palco, a gridare a un certo punto: «Parla loro del sogno, Martin!» King smise di leggere il testo ed entrò nella parte del predicatore. Le quattro parole che disse, «I have a dream», cambiarono la storia dell’America e ispirarono per anni le giovani generazioni di tutto il mondo. La frase fu ripetuta per otto volte, improvvisando e usando immagini già evocate in precedenti conferenze. Ma questa volta era diverso. Non solo per il successo di quella marcia, ma anche perché la tv e i giornali diedero all’evento un risalto secondo solo all’inaugurazione della presidenza di John Kennedy nel 1961.
Grazie ai media che amplificarono nel Paese parole dette decine di altre volte, era nato un grande leader. Il primo ad accorgersene fu William Sullivan, il capo del programma di controspionaggio del Fbi. «King - scrisse al suo capo John Edgard Hoover - sta una spanna sopra tutti gli altri leader dei negri messi assieme, quando si tratta di influenzare grandi masse di negri. Dobbiamo marcarlo ora come il più pericoloso negro di questa nazione».
Hoover, con l’approvazione del ministro della giustizia Robert Kennedy, mise sotto controllo il telefono di Levison, sospettato di essere un comunista infiltrato nel movimento, e fece installare microfoni e cineprese nascoste in tutte le camere d’albergo dove sostava King. Lo spionaggio non provò alcun legame del leader del movimento per i diritti civili con Mosca, ma rivelò un lato oscuro della sua personalità: la debolezza per le donne. Sposato e con quattro figli, King organizzava serate a base di alcol e sesso negli alberghi, riprese in filmati che finirono sulla scrivania di un estasiato Hoover.
Il direttore del Fbi mandò una copia delle bobine a Robert Kennedy (il quale sicuramente pensò con preoccupazione a uguali cineprese nascoste nelle camere da letto che lui e il presidente frequentavano) e cercò di fare in modo che lo scandalo trapelasse, mettendo in giro la falsa voce che le donne erano prostitute bianche e che King le picchiava. Ma nessun giornale accettò di fare il lavoro sporco al posto suo. L’Fbi spedì così una busta anonima con una copia dei filmati a casa di King, perché lui sapesse che qualcuno sapeva. La busta fu aperta dalla moglie Coretta, che fu intelligente e coraggiosa e capì che il ruolo del marito nella storia degli Stati Uniti era più importante delle umiliazioni pur gravi che lei era chiamata a sopportare. Dopo la morte di John Kennedy, Hoover consegnò i film anche al nuovo presidente Lyndon Johnson, che li proiettava agli amici dopo cena.
L’accanimento del capo del Fbi contro Martin Luther King continuò a lungo. Ma dopo avere ricevuto il Nobel per la pace, King era diventato troppo grande per cadere. Nuove accuse, come la scoperta che aveva copiato la tesi di laurea all’Università di Boston, sembravano ridicole in rapporto al suo mito. C’era ormai un solo modo per fermarlo: sperare o fare in modo che qualcuno lo uccidesse.
Vittorio Sabadin
MENO IDEOLOGIA PIÙ ECOLOGIA ECCO I NUOVI VEGETARIANI –
In principio, era soprattutto una moda. O almeno questo sembrava: una ribellione animalista un po’ frivola, un fenomeno passeggero. Invece, i vegetariani hanno vinto. Le loro scelte e il loro stile di vita sono usciti dalla nicchia e sono entrati nei discorsi di tutti i giorni. Oggi in molti – anche senza sposare la causa vegetariana fino in fondo – preferiscono limitare il consumo di carne. E intanto i vegetariani veri sono diventati «grandi»: meno militanti e ideologici di quelli della prima ora, ne fanno una questione concreta. Di salute, economia, impatto ambientale.
Così, il panorama «veg» è anche difficile da quantificare e i numeri infatti oscillano. Le statistiche Eurispes indicano come vegetariani il 6% degli italiani. Un sesto di questi – l’1,1% della popolazione – sarebbero i vegani, seguaci della versione più rigorosa, contrari anche ad abiti in pelle o lana, al miele e a ogni forma di sfruttamento animale. Quattro anni fa, tuttavia, le stime erano diverse: nel 2009, l’Unione vegetariana europea parlò di oltre sei milioni di vegetariani, il 10% della popolazione italiana.
Significa che nel frattempo i vegetariani sono diminuiti? Probabilmente no. Al contrario, stiamo parlando di una galassia più complessa, che inizia a sfuggire alle definizioni troppo rigide. Certo, resta un ampio zoccolo duro di italiani che non metterebbe mai la forchetta su un hamburger di tofu. Ma nel frattempo gli equilibri – e i ragionamenti – a tavola sono cambiati.
«Anche tra chi non è vegetariano si è diffusa la tendenza a mangiare meno carne e cercare di consumare proteine alternative - conferma Massimo Santinelli, direttore del Festival Vegetariano, in programma a Gorizia dal 30 agosto al 1° settembre - . In fondo non stiamo scoprendo niente di nuovo: siamo nel solco delle tradizioni contadine, di quando la carne si mangiava una volta ogni tanto e un maiale sfamava la famiglia per settimane».
Come detto, sempre più spesso ci si avvicina al vegetarianismo per motivi diversi. «Bisogna dividere in fasce spiega Santinelli -. Le famiglie ne fanno una questione di salute: evitano la carne, cercano di comprare alimenti di qualità garantita e si interessano al biologico. Per i giovani è invece più una questione etica, di rispetto della vita e dell’ambiente. Quella ecologica è la vera novità, secondo me una rivoluzione culturale: oggi si diventa vegetariani per la voglia di vivere con un impatto minore sul pianeta. È il motivo che ha spinto anche me, a oltre 50 anni e da ex amante della carne e del buon prosciutto, a fare la stessa scelta». È qui che il vegetarianismo si intreccia e avvicina ad altre pratiche legate alla sostenibilità, come i cibi biologici, il consumo di prodotti a chilometro zero, gli orti urbani e la tendenza a coltivare e consumare in proprio. «È una forma di antiglobalizzazione, ma – è vero – con meno ideologia di una volta dice Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico esperto di temi ambientali È la risposta alla crisi ecologica e il frutto di una maggiore attenzione alla salute. Oggi è decisivo sapere che eliminare o ridurre la carne è più sano da tanti punti di vista». Se le ragioni ambientali hanno spinto molti italiani verso la svolta vegetariana è anche perché i dati non lasciano dubbi sull’insostenibilità del modello carnivoro: «Gli allevamenti emettono il 18% dei gas clima-alteranti totali: più del traffico, colpevole del 16 %, o delle emissioni - prosegue Tozzi -. Non è difficile da capire: quanta CO2 consumiamo ogni volta che mangiamo una bistecca argentina? Per non parlare dell’acqua: un manzo ne consuma abbastanza per tenere a galla un incrociatore. E poi c’è il grande paradosso: per nutrire le bestie da allevamento ci priviamo di proteine vegetali che sono perfette per la nostra alimentazione. Invece di mangiarle, le diamo alle vacche e le usiamo per produrre proteine animali: proprio quelle che ci fanno male».
Stefano Rizzato