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 2013  agosto 25 Domenica calendario

I SEGRETI DELL’ASCESA DI SAMSUNG

Sessant’anni dopo. Si sono appena concluse le celebrazioni per l’anniversario dell’armistizio più lungo della storia, quello che nel 1953 pose fine alla guerra di Corea - senza che mai si sia giunti poi a un trattato di pace - lasciando la penisola quasi completamente distrutta. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quella terra resa quasi un deserto dal conflitto - povera come pochi altri Paesi al mondo - sarebbe stata protagonista di un boom economico che avrebbe creato "campioni nazionali" in grado di sfidare i colossi industriali dei Paesi più avanzati. Non a caso l’anniversario è in pratica coinciso con alcune notizie dirompenti sulla società-simbolo della proiezione globale del "miracolo del fiume Han": Samsung Electronics - appena dopo aver superato, sia pur brevemente, la capitalizzazione di Exxon Mobil come primo gruppo al mondo per valore di mercato - ha battuto per redditività la Apple nel secondo trimestre dell’anno con un utile netto di circa 7 miliardi di dollari e appare avviata verso nuovi traguardi nella lotta per la leadership globale con la società di Cupertino. Mentre il presidente Usa Obama è intervenuto per bloccare una decisione favorevole alla Samsung nel contenzioso sui brevetti tra le due società, la loro competizione si allarga da smartphone e tablet alla frontiera degli orologi "smart": il gruppo di Seul dovrebbe anticipare il rivale nella presentazione, a inizio settembre, del telefonino-computer da polso (oltre che di un nuovo ibrido tra smartphone e tablet).
Dal Giappone è arrivata l’indiscrezione che, dopo la Nec, anche Panasonic si avvia a uscire dalla telefonia mobile: ultimo segnale del fatto che i maestri sono stati superati dagli allievi. Il decollo dell’industria tecnologica sudcoreana era stato agevolato in parte da quella giapponese, che mai avrebbe immaginato di poter rischiare la sopravvivenza in vari settori, nell’arco di una sola generazione, a causa delle aziende dell’ex colonia, a lungo considerate insignificanti. Samsung -fondata poco prima della guerra, sotto occupazione nipponica, come piccola società di trading - iniziò a produrre radio a transistor di bassa qualità solo sul finire degli anni 60. Solo al 1993 si fa risalire la svolta verso orizzonti mondiali, nella riunione a Francoforte dei top manager in cui il numero uno Lee Kun-hee (subentrato al padre-fondatore Lee Byung-chull) avrebbe ordinato di «cambiare tutto salvo la moglie e i figli». Tutto cambiò nel senso di una ridefinizione delle strategie: da una produzione quantitativa a una di qualità. E quella riunione segnò a tal punto il cambio di passo che la sala dell’albergo di Francoforte in cui si svolse è stata riprodotta uguale identica nella sede della Samsung e si chiama Frankfurt Room.
Ai coreani non piace riconoscerlo, ma lo sviluppo del Paese è debitore dell’esempio e supporto giapponese, compreso il concetto e la pratica dei grandi conglomerati, e il forte dirigismo statale nella fase del decollo. Agli zaibatsu nipponici (annacquati in keiretsu dopo la guerra) corrispondono - pur con varie differenze - i chaebol sudcoreani di cui Samsung è il più grande, come colosso diversificato in vari settori non correlati - di cui il ramo elettronico è la punta di diamante - unificato in una struttura proprietaria opaca: una configurazione che crea il paradosso per cui il gruppo è non solo il principale rivale, ma anche il fornitore-chiave della Apple (dai chip ai piccoli schermi). Così i successi internazionali di Samsung diventano motivo di orgoglio per tutti i sudcoreani, anche se il gruppo è il più detestato da quanti lo ritengono il simbolo di uno sviluppo squilibrato in favore dei grandi gruppi in simbiosi con la politica. Anche l’attuale presidente del Paese, la signora Park (figlia del generale-presidente che pilotò in modo autoritario il miracolo economico) ha promesso di promuovere una maggiore diversificazione in favore delle piccole e medie imprese, ma non può ignorare i motori di una economia votata all’export, di cui il gruppo vale per circa un quinto del totale. La dynasty della famiglia Lee fa sempre notizia: dal perdono presidenziale nel 2010 per Lee Kun-hee (tangenti condonate per interesse nazionale) alle lotte fratricide per il controllo del gruppo, fino alle polemiche per sospetti favoritismi nell’accesso a una istituzione scolastica prestigiosa per il figlio del delfino designato, Lee Jae-yong, o il recente malore di Lee Kun-hee che l’ha costretto in ospedale. I non pochi incidenti di percorso non hanno impedito che il caso Samsung divenisse il più studiato - anche e soprattutto dai cinesi - come modello di riferimento per ogni gruppo con ambizioni globali: dal credito facile statale degli inizi all’approccio a lungo termine che privilegia l’acquisizione di quote di mercato sulla redditività a breve termine, dal controllo delle linee di produzione a quello di gran parte della componentistica, dalla capacità di miglioramenti "incrementali" di prodotti altrui fino a un marketing muscolare. Un modello asiatico che non sempre incontra il favore degli investitori istituzionali "occidentali", non pochi dei quali desidererebbero un approccio più "shareholder-friendly", magari con il ritorno agli azionisti di parte della montagna di disponibilità liquide (che si accumula anche per la riluttanza della società ad effettuare rilevanti acquisizioni, privilegiando la crescita per linee interne). Un tema diventato caldo negli ultimi mesi, durante i quali il titolo Samsung ha sofferto parecchio per il combinato tra la sensazione sempre più diffusa di una tendenziale "saturazione" del mercato degli smartphone (più che altro rispetto ai tassi esponenziali di crescita recenti) e la performance - brillante ma inferiore alle enormi aspettative degli analisti - del Galaxy S4. Così anche profitti record in crescita del 50% nell’ultimo trimestre non hanno entusiasmato affatto gli investitori finanziari, che si attendono piuttosto una imitazione della Apple nel cedere alle pressioni per destinare maggiori gratificazioni ai soci. Più che alle fluttuazioni del titolo (quest’anno resta deludente), a Seul sembrano contare i risultati operativi, che fanno di Samsung uno dei motori della crescita complessiva di una economia che nel secondo trimestre è riuscita ad accelerare, a differenza della frenata nella crescita dei colossi vicini, Cina e Giappone. Sul mercato cinese degli smartphone, il gruppo sudcoreano appare sempre meglio posizionato rispetto alla Apple per contrastare la crescita degli operatori locali, in un contesto in cui i gruppi coreani possono consolidare posizioni di leadership globale puntando molte carte sulla Cina senza i rischi di tipo "politico" che gravano sui rivali giapponesi e a volte anche americani. «Avete visto questa città? Un porto più grande di qualsiasi porto americano, con ponti più grandiosi del Golden Gate», dice ai colleghi un veterano americano dell’Ohio, medaglie e lustrini al petto, al termine delle celebrazioni dell’armistizio al cimitero delle Nazioni Unite di Busan, seconda città del Paese. E aggiunge: «Non c’è solo la Cina. La Corea del Sud è quasi come il Giappone della fine degli anni 80, se no la Samsung non rischierebbe di battere la nostra Apple. Ma è merito nostro e dei quasi 40mila nostri commilitoni che sono caduti qui: se non avessimo fermato il comunismo, qui sarebbero ancora alla fame, come lassù al Nord…».