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 2013  agosto 22 Giovedì calendario

I FRATELLI CEREA

Dei magnifici 24 che compongono la Cerea dynasty (una mamma, cinque figli, due nuore, tre generi e 13 nipoti) per il momento restano esclusi dai fornelli solo nove bambini, da Anna, 6 anni, la più piccola, a Rebecca, 11, la più grande fra gli eredi non ancora in età da lavoro. Ma è solo questione di tempo: tutti gli altri hanno già le mani in pasta. Vittorio, 13 anni, promette bene nell’arte pasticciera, che nel periodo scolastico lo intriga senz’altro più dei compiti a casa. Giulia, Maria Vittoria e Maria Rita, 14, si alternano fra accoglienza e distribuzione del pane in sala. Beatrice, 18, fresca di liceo, è volata a Houston per uno stage in un hotel della catena Relais & châteaux.
Buon sangue non mente. I loro genitori si adattarono prestissimo ai 45 gradi di temperatura della cucina. Enrico, detto Chicco, primogenito dei cinque fratelli Cerea ed executive chef che avrebbe voluto diventare veterinario, a 10 anni si divertiva a preparare dolci e a 13 cucinò il suo primo piatto, spaghetti alla pescatora, reputato dal padre talmente perfetto da essere «mandato fuori», sì, insomma, servito ai clienti. Suo fratello Roberto, detto Bobo, il secondo chef, si cimentò a 15 anni negli gnocchi ripieni con fonduta al tartufo, così equilibrati da meritarsi di figurare tuttora (come del resto gli spaghetti alla pescatora) nella carta del ristorante Da Vittorio, il tre stelle Michelin diventato sinonimo di made in Italy per i potenti della terra, dalla regina Elisabetta II d’Inghilterra al controverso presidente del Kazakhstan, Nursultan Nazarbayev.
La holding del gusto, rimasta saldamente ancorata alla dimensione familiare, oggi comprende la Dimora di Brusaporto, locanda di charme affiliata a Relais & châteaux; il caffè-pasticceria Cavour 1880 di Bergamo, annoverato fra i Locali storici d’Italia; il vino Faber, uvaggio di cabernet e merlot, affiancato dal passito di moscato nero; un’organizzazione di catering capace di mobilitare fino a 75 persone nei cinque continenti per i ricevimenti del jet set, sotto la supervisione di Francesco, il secondogenito, responsabile delle pubbliche relazioni e degli eventi.
Da Vittorio. Mai griffe fu etimologicamente più appropriata, visto che tutto ebbe inizio da lui, da Vittorio Cerea, il capostipite mancato prematuramente il 31 ottobre 2005. «S’è goduto il suo capolavoro solo per un paio di mesi» non si dà pace la moglie Bruna, che ha dovuto subentrargli nel ruolo di patriarca. Il «suo capolavoro» è il relais della Cantalupa, 10 ettari di tenuta con due laghetti naturali, inaugurato a Brusaporto, pochi chilometri da Bergamo, dopo 40 anni di felice permanenza nel cuore della città orobica, in viale Papa Giovanni XXIII. «Abbiamo sofferto a spostarci» ammette la vedova. Ma come si poteva rinunciare al lustro che conferisce il blasone più riverito di Francia nel campo dell’hôtellerie e della ristorazione?
Quando Vittorio Cerea nel 1957, a 23 anni, conobbe Bruna, 18, «imbottiva panini con gli arrosti e il roast-beef in un bar, gestito insieme ai fratelli» rievoca la signora. Nel 1963 si sposarono. Poco tempo dopo accadde una terribile disgrazia: i due dirimpettai del ristorante Roma morirono annegati. Il locale stava per chiudere. Cerea ci vide la possibilità di affrancarsi da un trantran che cominciava ad andargli stretto e che, soprattutto, doveva sfamare troppe famiglie. Si riempì di debiti e subentrò con l’insegna Da Vittorio nel gennaio 1966. «Le dico solo questo: non avevamo nemmeno i soldi per comprare i liquori. A fornirceli in conto vendita fu un generoso rappresentante di Alzano Lombardo, il signor Gritti».
«Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra» recita il salmista. Nel giro di 11 anni, Vittorio ne ebbe dalla sua Bruna ben cinque. La loro ricchezza. Oltre a Enrico (1964), Francesco (1966) e Roberto (1972), anche Barbara e Rossella. A loro volta felicemente sposati e con prole. Ecco perché questa è giocoforza un’intervista polifonica, in cui uno risponde per tutti e tutti rispondono per uno.
Possibile che a nessuno di voi sia venuto in mente di intraprendere una professione diversa?
Non sappiamo fare altro.
Non è facile tenere uniti cinque figli nella stessa impresa.
È merito di mamma e papà, che ci hanno fatto amare il lavoro come se fosse un hobby.
Il cuoco è il mestiere preferito dai bambini italiani: lo vogliono fare 22 su 100, secondo un recente sondaggio della De Agostini Publishing.
Colpa dei programmi di cucina in tv.
Colpa?
Sì, colpa. Perché hanno incentivato il boom delle scuole alberghiere, dalle quali però escono allievi che gettano la spugna al primo banchetto. Basta dirgli che si lavora anche il sabato e la domenica e scappano a gambe levate. Guardando la televisione non s’erano resi conto che in questo mestiere devi rinunciare alle amicizie, al cinema, al teatro, allo sport.
Quando arrivò la prima stella Michelin?
Nel 1978. Nostro padre non se l’aspettava. Però, senza saperlo, aveva sempre faticato per guadagnarsela. Era un maniaco della materia prima, che in cucina vale l’80 per cento del risultato finale. Essendo privo della patente di guida, si faceva accompagnare da un amico in Valmadrera per cercare le carni migliori o in Valtellina per accaparrarsi i porcini appena colti. Nel giorno di riposo, arrivava fino in Liguria e tornava dopo tre ore con il pescato di giornata.
Enrico e Roberto, come fate a non litigare in cucina? William Shakespeare diceva che quando due vanno a cavallo, uno deve stare dietro.
Il lavoro è talmente tanto che ce lo dividiamo da buoni fratellini. Basta un’occhiata per intenderci. E per le decisioni importanti si riunisce un consiglio di famiglia.
Vivete con le stesse ansie di Alexandre Lagarde, il cuoco del film «Chef» interpretato da Jean Reno, che teme di perdere la terza stella?
La mamma sì. Noi no. Le tre stellette rappresentano semmai uno stimolo all’impegno quotidiano. I nostri amici Haeberlin dell’Auberge de l’Ill di Illhaeusern, in Alsazia, le hanno da 46 anni e non li abbiamo mai visti angosciati.
Il film di Daniel Cohen teorizza che per essere premiati dalla Michelin occorre adottare una linea di cucina «alla francese».
I Santini del Pescatore di Canneto sull’Oglio hanno tre stelle eppure restano molto padani. Francese è solo la serietà e l’atmosfera che si respira nel loro ristorante. Idem Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena. Noi stessi siamo molto lombardi, terragni, legati a una cucina di sostanza.
Gualtiero Marchesi, il primo in Italia a ottenere, nel 1985, le tre stelle dalla Michelin, quando dopo 11 anni la guida rossa gliene tolse una, mi confidò: «Sento dire che per conservare le tre stelle bisogna essere perfetti. Ma nessuno è perfetto. Ciò che so fare non posso averlo dimenticato, di questo sono certo». Forse pensava alla ritorsione di un ispettore.
Gli ispettori sono innanzitutto clienti e i clienti percepiscono all’istante se perdi smalto. Ma Gualtiero resta un grande chef, il primo ad avere sdoganato in Italia l’estetica del piatto.
Un vostro collega di Alba, Enrico Crippa, tristellato da quest’anno, è arrivato a dare i numeri: chiama le insalate 21, 31 e 41.
I numeri indicano la quantità di erbe, spezie, fiori e odori dell’orto che entrano nel piatto. Va lasciato spazio alla libertà di espressione. Noi le insalate non le abbiamo nemmeno in carta.
Com’è che i grandi chef sono tutti maschi?
Vittorio non credeva nella donna in cucina. È un’attività troppo faticosa. Serve tanta forza fisica. Una pentola di rame pesa cinque chili da vuota. Pensi quand’è piena. E se poi una cuoca rimane incinta che fai? Chiudi il ristorante?
Che cosa pensate della cucina molecolare con i sifoni inventata dallo spagnolo Ferran Adrià al Bulli di Roses, chiuso nel 2012?
Le tecniche nuove aiutano a migliorarsi. Le abbiamo adottate anche noi per valorizzare un rombo con una meringa di merluzzo, una mousse sifonata e caramellata. E per l’aria di crostacei: un astice con un gratin di masala e un’eterea spuma a coprirlo.
Però Adrià dopo 28 anni di sifoni ha lasciato voi ai fuochi e lui va a spasso con il portafoglio gonfio.
La vena creativa a un certo punto si esaurisce. Adrià ha avuto un finanziamento dal governo per girare il mondo a promuovere la cucina spagnola. Il suo lavoro crea un indotto importante. Invece noi italiani siamo fermi ai guelfi e ai ghibellini. Ci facciamo la guerra, anziché collaborare.
Voi a chi dareste tre stellette, se foste ispettori della Michelin?
Di sicuro a Davide Scabin del Combal.Zero di Rivoli e ad Antonino Cannavacciuolo del Villa Crespi di Orta San Giulio.
Come fate a rendere felici i commensali sia a Brusaporto e sia al Carlton hotel di St. Moritz, che ha ingaggiato Enrico e Roberto come chef? Non avete il dono dell’ubiquità.
Siamo una famiglia talmente numerosa che un Cerea in cucina c’è sempre. E possiamo contare anche sullo chef Luca Mancini, abruzzese, un fenomeno, che lavora con noi da oltre 10 anni.
Perché i Cerea non si vedono con i Carlo Cracco e i Bruno Barbieri a «Masterchef»?
(Parla Roberto). A noi piace cucinare. (Interviene la mamma). Mòchela, Bobo! («Smettila» in bergamasco). Non siamo telegenici. Ce l’hanno offerto, ma era troppo impegnativo.
Però siete sempre più spesso in giro per il mondo.
Vero. Gli stranieri vengono a Brusaporto, s’innamorano dei piatti e vogliono Da Vittorio a casa loro. A giugno abbiamo curato in Kazakhstan una cena con 150 ospiti per il compleanno della figlia del presidente Nazarbayev, Damira. A fine agosto replicheremo con 430 invitati per il banchetto di nozze del nipote. Siamo stati anche a Erevan, in Armenia, per il matrimonio della figlia di un ministro. La Ermenegildo Zegna ci ha voluti a Istanbul per la festa dei 25 anni della sua consociata turca. Una famosa stilista italiana, di cui non possiamo fare il nome, ci ha affidato un convivio in una villa di Cap d’Antibes, in Costa Azzurra, con molti suoi amici famosi, fra cui Anna Wintour, la direttrice di Vogue che ha ispirato il film Il diavolo veste Prada. All’improvviso nel giardino è atterrato con il suo elicottero Roman Abramovich e solo a quel punto ci siamo resi conto che la magione apparteneva al magnate russo.
Non è un falso in atto pubblico non informare il cliente che lo chef presso cui ha scelto di mangiare quel giorno non è in cucina ma da un’altra parte del mondo?
Enrico e Roberto escono in sala spessissimo. Mamma e Rossella a Brusaporto ci sono sempre. Ma non abbiamo alle spalle un imprenditore che ci finanzia, come Gualtiero Marchesi che all’Albereta di Erbusco può contare su Vittorio Moretti. Del resto Alain Ducasse, lo chef che ha avuto dalla Michelin più stelle di tutti, 21, è riuscito nell’impresa di gestire tre ristoranti tristellati in tre diverse nazioni ed è a capo di un gruppo che oggi conta 20 locali e 1.400 dipendenti.
Vi fidate degli inappetenti?
Preferiamo i golosi.
E degli astemi?
Preferiamo i ciochetùn. Già il vocabolo «astemio» evoca una malattia.
Bevendo acqua minerale e mangiando antipasto, primo e dessert, che cifra va messa in preventivo per sedersi alla vostra mensa?
Sui 120 euro.
Gianfranco Vissani ha sostenuto per anni che al ristorante si dovrebbero spendere 15 euro e che chi ne paga 100 o ha soldi da buttare via o è rincoglionito.
A Bergamo, dov’è stato testimonial dei fornai che preparano il pane con un grano autoctono, ha persino dichiarato che lui non va a mangiare nei locali stellati. E il suo di Baschi che cos’è? Gianfranco è uno showman, ha il gusto delle iperboli.
Dove portate a cena le vostre mogli o compagne?
Roberto è un patito della pizza-focaccia di Sirani a Bagnolo Mella, nel Bresciano. Ci va una volta al mese per mangiare quella con il prosciutto Pata negra o con i gamberi crudi. Noi giriamo nei ristoranti dei colleghi. La mamma chiede da una vita d’essere portata al Pescatore di Canneto sull’Oglio.
Mai entrati in un McDonald’s?
Certo, con i nostri bambini, quand’erano piccoli, nell’area di servizio di Castelnuovo Scrivia della A7. Grande organizzazione. Ma gli hamburger sono un’altra cosa.
La crisi ha modificato le abitudini degli avventori?
Eccome. Spendono meno, risparmiano sui vini e sul numero delle portate, ripiegano sui piatti meno costosi.
Per mangiare bene bisogna spendere tanto?
Non sempre. Ma se vuoi gli scamponi di Mazara del Vallo da due etti e mezzo l’uno, freschi di giornata e arrivati con l’aereo, devi sapere che costano 70 euro il chilo all’ingrosso. E noi ne serviamo quattro.
I cuochi hanno un loro sindacato?
Chi lo sa? Noi siamo una famiglia.
Come si lavora in Italia?
Male. La voglia di andarsene è tanta. Ma l’Italia resta l’Italia. Anche se, quando siamo all’estero per i nostri catering, grida vendetta al cielo chiedere un parmigiano e vedersi offrire il «parmesan» cinese oppure imbattersi in vini cileni spacciati per italiani e in salumi canadesi con l’etichetta tricolore. Possibile che i politici non si rendano conto dei danni incalcolabili che queste contraffazioni arrecano alla nostra economia?
(stefano.lorenzetto@mondadori.it) ■
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