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 2013  agosto 23 Venerdì calendario

IL BAMBINO SOLITARIO SEDOTTO DALLA RETE


Nel novembre del 2009 l’analista militare Bradley Manning contatta online uno psicologo, a cui, per la prima volta, confessa di voler diventare una donna. È in Iraq, nella base di Hammer, 40 miglia da Bagdad. Passa le giornate in una stanza con uno schermo gigante che riporta le immagini delle operazioni militari in corso nella zona. È la guerra in diretta video, ma lui la definisce uno «snuff movie» non stop, riferendosi ai film in cui si mostrano torture che si concludono con la morte della vittima. Una mattina lo schermo manda in onda le immagini di militari che uccidono civili innocenti. Le guarda più volte, sperando in un errore, e poi fa quello che un bravo militare deve fare: denuncia l’accaduto alla polizia federale irachena. «Torna al lavoro», gli dicono. Manning è abituato a quei toni: i commilitoni lo prendono in giro spesso. È piccolo ed esile come un bambino, «una bambina», ridacchia qualcuno. Nella base lo sanno tutti che è gay. «Don’t ask, don’t tell» dice la regola. E allora nessuno chiede e nessuno racconta, ma la tensione è forte. È su internet che l’analista trova il suo mondo parallelo: online Manning è coraggioso, aperto, affettuoso. Può essere un attivista dei diritti omosessuali, può fare sesso senza paura di essere goffo, può diventare un eroe.
La vita virtuale comincia presto. Bradley è un bambino introverso. A scuola è un campione, imbattibile in matematica, ma quando l’autobus lo riporta a casa, corre in camera sua davanti al computer. Cresce in una fattoria nell’Oklahoma, ma quello che doveva essere il sogno hippie di due innamorati si trasforma presto in un buco nero: il padre, tecnico informatico con un passato nell’esercito, è sempre via. La madre comincia a bere e l’alcol le fa dimenticare che il suo bambino ha bisogno di stare lontano dal pc ogni tanto. L’adolescenza di Manning è senza amici, ma il computer — come per tanti della sua generazione — diventa una religione, di cui l’hacker è il dio. In quella comunità vincono gli strani, depositari di codici e formule che nessun altro capisce. L’incontro online con il re degli hacker, Julian Assange, è una ricompensa delle sofferenze del passato. «Ogni volta che assistiamo a un atto che ci sembra un’ingiustizia e non facciamo niente, diventiamo parte di quell’ingiustizia», gli scrive Assange sul canale Irc di Wikileaks nel novembre del 2009.
Le sue parole riempiono i vuoti. Manning è teso, litiga con i militari, dorme poco. Nella base sanno che c’è qualcosa che non va ma hanno troppo bisogno della sua mente analitica e matematica per rimandarlo indietro. Da adolescente, durante una lite con la sua matrigna, Bradley aveva preso un coltello e gliel’aveva puntato contro. La donna l’aveva denunciato alla polizia, poi, convinta dal marito, aveva ritirato la denuncia. Forse i militari sanno dell’episodio. Ad Assange non interessa conoscere certe cose. Lo seduce, gli parla di libertà e democrazia. Manning ci tiene a quello scambio. Lo fa essere più forte, sicuro, migliore. «Mi sento un mostro», aveva detto allo psicologo online solo qualche settimana prima. Adesso è parte di un’impresa rivoluzionaria. Sa di dover dare qualcosa in cambio per mantenere alta l’attenzione del leader di Wikileaks e gli offre il materiale che porterà l’organizzazione nella storia e lui in prigione. I consulenti al processo dicono che è stato l’adolescente idealista e confuso che vive nella sua testa a consegnare settecentomila documenti diplomatici e militari a Wikileaks.
L’adulto è quello che ha sopportato con dignità 11 mesi di isolamento (23 ore al giorno) nel campo Arifjan in Kuwait, costretto a dormire nudo, e che ha chiesto scusa agli Stati Uniti durante il processo, ricordando poi al presidente Obama che «non c’è bandiera così grande da poter coprire la vergogna dell’assassinio di un presidente». Quello che ha annunciato finalmente al mondo ieri mattina: «Chiamatemi Chelsea, sono una donna».
Serena Danna