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 2013  agosto 23 Venerdì calendario

I DOLORI DEL GIOVANE STING


Verona. Quando alla fine del concerto Sting intona Fragile, sublime inno all’impermanenza, il pubblico si scioglie, canta sommessamente senza sbagliare una nota mentre l’Arena si trasforma in un prato notturno pieno di lucciole. Sono le ultime date del Back to Bass Tour, l’artista è già con la testa altrove, ha finito di missare il nuovo album The Last ship, che sarà in vendita dal 23 settembre. Un progetto complesso: ci sono dentro le canzoni dello spettacolo teatrale che debutterà negli Usa nel 2014 per la regia di Joe Mantello (Wicked); copione già pronto firmato da John Logan (Red, Skyfall) e Brian Yorkey (Next to normal).
«Sto trascurando la mia villa in Toscana, vivo quasi in pianta stabile a New York», dice Sting dietro le quinte. «Per il nuovo spettacolo, ma anche per star vicini a Giacomo, il nostro ultimogenito che ha diciassette anni e studia a Manhattan. Gli altri sono cresciuti, Coco ha pubblicato l’album d’esordio e ora ha inciso una meravigliosa versione di Creep dei Radiohead; Mickey è stata rapita dal cinema, interpreta il ruolo di Patti Smith in un film sul CBGB, il mitico locale punk newyorkese...».
Erano dieci anni che non scriveva una nuova canzone, i più impegnativi della sua carriera; mai dalla reunion dei Police a Back to Bass, passando per Symphonicity, la sua attività concertistica era stata tanto frenetica.
«Ho lavorato moltissimo e mi sono immerso nella conoscenza di altre cose, come la musica antica di John Dowland e Purcell... anche solo per il piacere di imparare», riflette Sting, che il prossimo 2 ottobre compie 62 anni. «Credo che uno non debba mai smettere di essere studente, non importa chi è, cosa fa e il livello che ha raggiunto. Alla fine, quando ho deciso di affrontare questo progetto le canzoni sono arrivate in un tempo brevissimo. E ora eccomi qua, felice e soddisfatto». Ne ha ben donde, Practical Arrangement, il brano già pubblicato, è malinconico e struggente, pronto a diventare un nuovo inno – tanto perfetto che già uno lo immagina sulla bocca di interpreti divini. Tipo Barbra Streisand per intenderci. Alla luce di tanta bellezza sembra che la serie infinita di tour sia stato solo un modo per rendere più sopportabile la paralisi creativa.
«Amico mio, anche io devo pagare l’affitto. Non sto mica scherzando, le spese sono tante. Ma credo anche che a un certo punto della carriera un artista debba mettersi in pausa e ascoltare. Io nell’attesa ho fatto tesoro del mio repertorio», spiega la sera dopo a Roma, nella pausa tra soundcheck e spettacolo. Un’altra arena, un altro pubblico, stesse vibrazioni; gli ultimi concerti prima dell’avventura più ambiziosa della sua carriera.
The Last Ship è un album concept illuminato dai ricordi: la chiusura dei cantieri navali Swan Hunters di Wallsend negli anni Ottanta – la distruzione degli scenari della sua infanzia, ma soprattutto un luogo poetico per riflettere sul tempo che passa, sulla complessità delle relazioni all’interno della famiglia, sull’importanza del lavoro e degli affetti nella comunità. E per Sting l’ennesimo tentativo di riconciliarsi con il passato dopo una fuga da Newcastle che sembrava senza ritorno, un taglio netto col passato, con Wallsend, con i parenti, gli amici, tutto. Non sono bastati due mogli e sei figli, i trionfi con i Police, 100 milioni di dischi venduti, 16 Grammy Awards e una vita sociale da nababbo ad anestetizzare rancori e sensi di colpa. Il bambino tormentato che fu testimone involontario e sgomento dei tradimenti di sua madre e della conseguente cronica malinconia di suo padre (che per amore o viltà non prese mai di petto l’argomento) non è mai stato messo a tacere dall’adulto. Le gigantesche sagome delle navi rappresentano gli spettri del passato che ancora lo perseguitano. «The Last Ship è una full immersion nel paesaggio della mia infanzia – un viaggio che avevo iniziato con l’album The Soul Cages, in cui parlavo della perdita dei miei e la crisi in cui sprofondò la mia città dopo la chiusura dei cantieri», spiega Sting. «La morte di papà mi guidò alla composizione di un album intimo e oscuro. Ora sono tornato sulla stessa storia, ho esplorato le stesse emozioni, descritte dal punto di vista di quelli che mi stavano intorno, la gente che ci lavorava in quei cantieri, che è sopravvissuta alla crisi e prova la stessa nostalgia che provo io; che magari ha rinnegato tutto come ho fatto io, senza però mai dimenticare. Dunque una storia raccontata a più voci, con diversi stati d’animo. Mi sono immerso in uno scenario che nella mia mente è diventato molto cinematografico... così sono tornato nella mia città, nella vecchia casa, dai miei genitori, e ho rivisto con gli occhi del bambino le navi che torreggiavano sugli uomini, sulle case, sull’intera comunità (mostra sull’iPad un’immagine bianco e nero di uno scafo gigantesco che sembra un quadro del Porto delle nebbie). Questa è una foto scattata dalla strada in cui vivevamo, non sembra un set teatrale? Surreale. Ecco la differenza tra The Soul Cages e The Last Ship: quest’ultimo è anzitutto un progetto teatrale, pensato per il palcoscenico, tridimensionale direi, meno personale e anche più maturo. Ho preso le distanze dal passato, lo lascio scorrere davanti ai miei occhi. Mettersi nei panni degli altri, uscire dal proprio guscio è sempre un’ottima terapia».
Quanto c’è voluto per elaborare i suoi problemi personali in temi universali?
«Tre anni per completare The Last Ship... ma dentro di me il processo è stato infinito, perché in fondo ho scritto di queste cose per tutta la carriera, anche se non in maniera organica. Qui per la prima volta torno a casa; canto con l’inflessione dialettale del mio paese, che uso solo quando m’incazzo (sghignazza)».
Che bambino e che adolescente era?
«Confuso. Di certo non volevo lavorare nel cantiere, l’idea anzi mi terrorizzava. Intuivo di essere destinato a una vita diversa, ma all’orizzonte sembrava non esserci altra prospettiva. Non ero un ragazzo felice; mio padre mi spronava incessantemente a fare quel lavoro, voleva che frequentassi l’istituto tecnico in vista di un posto in azienda, ma io avevo in mente la musica, era la mia amica e la mia consolazione. Così me ne andai. Ma poi... quanti sensi di colpa!».
Nelle note dello spettacolo scrive: «Il coraggio a volte scaturisce dalla disperazione».
«In effetti ero disperato, ai limiti del panico. Le domande erano drammatiche e incalzanti; come vivrò? di cosa vivrò? come riuscirò ad esprimermi? Alla fine sono stato coraggioso, non solo a lasciare Newcastle; ci vuole tanta forza anche per affrontare il palcoscenico ogni sera. Sono per natura introverso, timido, stare sotto i riflettori non è una dimensione naturale per me. Ma lo faccio, è il mio lavoro».
Si buttò a capofitto nella nuova avventura, prima con i Police poi come solista. Sembrava avere basi solide.
«Nient’altro che una buona scuola, avevo studiato francese e latino e fisica e chimica, non certo la scuola che mio padre avrebbe voluto. Mi diceva: “Che cazzo perdi tempo a studiare il latino, non sei mica un prete!”. Ma io volevo imparare, e questo era fonte di continui dissidi fra noi. Papà non mi ha mai dato ragione, non ha mai capito il mio percorso, se non forse poco prima della morte».
Probabilmente non sarebbe riuscito a realizzare i suoi sogni se non ci avesse dato un taglio netto – al passato e ai sensi di colpa – senza più guardarsi indietro. Forse per questo non andò al funerale dei suoi.
«Lo credo anch’io. ...A scuola dovevo indossare una divisa, nel mio quartiere dicevano che ero snob, mi prendevano in giro. Non c’era altra soluzione, dovevo andarmene».
Aveva un piano B casomai non ce l’avesse fatta?
«Per un po’ feci l’insegnante, il supplente a esser precisi, ma era la musica che mi ronzava in testa. Sarebbe diventata un’ossessione se non ci avessi provato. I miei si arresero quasi subito. “È pazzo, lasciamolo andare”, dissero. Ero il figlio maggiore, avevano altre aspettative, mi avevano immaginato come una figura di riferimento per i miei tre fratelli. Ma che guida può mai essere un pazzo?».
Quand’è che i vecchi rancori hanno lasciato il posto a quella che lei definisce «una paradossale nostalgia per il passato»?
«Quando ho raggiunto il traguardo dei sessanta e ho cominciato a riconsiderare le cose con più saggezza, più maturità, più oggettività. È stato un percorso difficile, duro e surreale quello che mi ha portato fino a The Last Ship».
La decisione di tornare a Newcastle nel 2009, dopo trentacinque anni, per incidere in una chiesa del paese If on a Winter’s Night... fu l’inizio del processo di riconciliazione?
«Rivedere la vecchia casa, il mulino, i compagni di scuola… tornare a essere per pochi giorni il figlio del lattaio, fu il primo passo. Ne venne fuori un disco molto dark; ho avuto sempre una irresistibile attrazione per i paesaggi invernali, per gli squarci di luce tra nebbia e neve. L’idea di The Last Ship nacque proprio lì, in quei giorni».
Un progetto che assomiglia a un percorso terapeutico.
«Il solo che abbia intrapreso, mai andato in analisi. Forse dovrei, ma ormai è troppo tardi. Non puoi insegnare a un vecchio cane a non abbaiare. Mi curo scrivendo canzoni. Il momento cruciale della terapia (ride) meraviglioso e liberatorio è stato trasferire le mie emozioni sulla bocca di terze persone; un sollievo, mi sono sentito liberato, meno autoreferenziale, come se stessi scrivendo giornalisticamente la storia di qualcun altro».
Nel disco c’è di tutto: il folk, la musica antica, il cantante che ha fatto fortuna con i Police e come solista...
«...e qualche influenza che ho ereditato dalle commedie musicali. Ho sempre amato i musical di Rodgers & Hammerstein, da ragazzo andavo pazzo per Oklahoma! Mia madre aveva tutti quei dischi, da Carousel a West Side Story. E io sognavo, sognavo...».
Come sarà The Last Ship a Broadway? Un musical, una pièce o cosa?
«Sarà uno spettacolo teatrale con delle canzoni. Debutteremo a Chicago a maggio 2014 e se tutto andrà bene subito dopo approderemo a Broadway. Mi piace la disciplina che il teatro impone, tempi precisi, la canzone giusta al momento giusto… un processo molto più rigoroso e crudele della spontaneità di un concerto pop».
Niente a che fare con Welcome to the Voice, che rappresentò a Parigi con Costello e Robert Wyatt?
«Quella era un’opera una vera e propria, altri ritmi. Questa è un’avventura decisamente più americana, quindi più commerciale (strizza l’occhio). Più veloce (schiocca le dita), più dinamica. Scenografia semplice, non voglio una produzione costosa ma qualcosa che possa anche essere rappresentato nelle scuole anche con una sola chitarra. Una produzione agile e low budget».
Lei che ruolo avrà?
«Nessuno, sono troppo vecchio. Io sono solo l’autore delle musiche. È la mia storia e la metto in scena con collaboratori di talento come Jimmy Nail. Nessuna superstar».
Torna a Broadway. Che ricordi ha del suo debutto con L’opera da tre soldi?
«Era il 1989, quanto tempo è passato! La cosa che più mi piaceva era la routine, uscire da casa e andare ogni giorno al lavoro nello stesso posto come un impiegato. Dopotutto il mio primo ingaggio è stato a teatro, suonavo il basso quando il primo musical di Andrew Lloyd Webber, Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat, approdò a Newcastle. Circa 1969».
The Last Ship è la sua Récherche?
«Quella l’ho già scritta, Broken music, la mia prima autobiografia. Mi piacerebbe fare un altro libro, ma prima devo vivere ancora un po’ e prendere le distanze dagli avvenimenti. Non si possono elaborare i ricordi prima che siano passati almeno vent’anni».
A occhio e croce il secondo volume arriverà intorno agli Ottanta.
«E magari anche un terzo intorno ai cento!».