Federica Bianchi, L’Espresso 23/8/2013, 23 agosto 2013
PRIGIONIERI IN TERRA STRANIERA
Il giorno chiave è il 3 settembre. In quella data la Corte suprema indiana ha accettato di rivedere la condanna all’ergastolo di Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni, i due amici da tre anni rinchiusi in sezioni diverse del carcere indiano di Varanasi dal gennaio del 2010 con l’accusa di avere ucciso un loro compagno di viaggio, Francesco Montis. Per gli indiani il motivo fu passionale dal momento che i tre avevano dormito tutti nella stessa stanza. Per i protagonisti, invece, Francesco, fidanzato di Elisabetta, sarebbe stato trovato agonizzante al risveglio degli altri due. La verità non si saprà mai visto che il corpo, dopo un breve esame eseguito da un oculista che ne ha costatato la morte per soffocamento, è stato immediatamente cremato. Adesso, complice anche il clamore della vicenda giudiziaria dei due marò, la condanna all’ergastolo indiano sancita da due gradi di giudizio potrebbe essere finalmente rivista.
Tomaso ed Elisabetta sono solo due dei 3.279 italiani detenuti all’estero, un numero che è rimasto più o meno costante negli ultimi dieci anni. La loro distribuzione internazionale segue le aree di emigrazione tipicamente italiane: la maggioranza si trova all’interno dell’Unione europea (2.323 persone), soprattutto in Germania (che ne ospita ben 524) e Spagna, con 129 detenuti nei Paesi europei extra Ue. Nelle Americhe (494 prigionieri complessivi) il Venezuela detiene il primato con 81 prigionieri, soprattutto per reati legati al commercio di droga.
Degli oltre 3 mila detenuti, i tre quarti, 2.393 per la precisione, sono ancora in attesa di giudizio mentre 33 aspettano di essere estradati in Italia. L’estradizione è una procedura in teoria garantita dalla convenzione di Strasburgo che in pratica richiede anni e soprattutto l’intermediazione diretta del ministero di Giustizia e di quello degli Affari esteri per avere successo. Considerando che il nostro Paese non gode in questo momento né di prestigio politico, né di forza economica, la contrattazione con i governi che trattengono i nostri detenuti non è facile. «Siamo diventati una nazione con poca rilevanza internazionale, e per di più danneggiati da divisioni interne tra ministeri e da una giustizia estremamente garantista rispetto alla media internazionale e troppo lenta: tutto quello che possiamo fare è rifugiarci dietro il rispetto letterale della legge per avere un minimo di credibilità», spiega una fonte della Farnesina: «Certo non possiamo fare come gli americani e mandare un elicottero a prendere chi decidiamo noi», aggiunge scherzando. E tantomeno siamo capaci come Paese di fare sistema per aiutare uno dei nostri. Come hanno fatto ad esempio gli americani con Amanda Knox, prima condannata a 26 anni per l’uccisione di Meredith Kercher e poi assolta in appello dopo mesi di pressione della stampa americana e un’attenzione speciale da parte dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton.
Ma rimanere in prigione all’estero non è facile. C’è chi ci è morto come Mariano Pasqualin a Santo Domingo a pochi giorni dal suo arresto, e tanti che ne sono usciti malandati. «Questo avviene perché nelle carceri la violenza è tanta e nella maggioranza dei casi non è garantito il rispetto dei diritti umani», spiega Katia Anedda dell’associazione Prigionieri del silenzio, che si occupa dei detenuti italiani all’estero da quando la sua vita ha incrociato quella di Carlo Parlanti, un italiano che ha scontato sette anni di carcere negli Usa dopo essere stato accusato di violenza sessuale contro la sua ex fidanzata. Si è sempre detto innocente, spiegando di essere stato incastrato da una polizia americana che rifiutava di ammettere di avere sbagliato nel dare retta alle accuse della vittima: «La mia estradizione dalla Germania verso gli Usa è stata basata su documenti falsi e così anche l’accusa della giuria», sostiene al telefono mentre spiega di avere ingaggiato una battaglia legale per vedere riconosciuta la sua innocenza.
Ma anche se colpevoli, come nel caso dei tanti italiani rinchiusi nelle prigioni venezuelane per spaccio di droga, sono le condizioni di vita quotidiana gravissime che richiederebbero uno sforzo supplementare alle nostre ambasciate all’estero per garantire ai prigionieri una detenzione umana. «Ci siamo accorti di essere scesi all’Inferno e non sapevamo se ne saremmo usciti vivi», scrive in una lettera aperta in cui elenca le condizioni di vita nel carcere uno dei quattro detenuti italiani in Venezuela in attesa di rimpatrio. «Tra avvocati, estorsioni a cui mio fratello era sottoposto dalla mafia che gestisce il carcere di Caracas e viaggi per andarlo a trovare abbiamo speso quasi 80mmila euro in due anni e mezzo», spiega Rita Catena, sorella di Simone, un ventenne condannato a otto anni e recluso nella prigione El Rodeo per essere stato trovato all’aeroporto con due etti e mezzo di droga nel bagaglio e da un anno in attesa dell’estradizione in Italia: «Mio fratello ha sbagliato e ora lo sa, ma non è giusto che sia sottoposto a una vita disumana per un pacco di droga. Chiediamo al ministero degli Esteri di aiutarci a portarlo in carcere in Italia in tempi brevi». Da Roma fanno sapere che i consoli in loco si adoperano al meglio sia in termini di risorse (scarsissime) con cui pagare le spese legali che attraverso il sostegno politico per migliorare le condizioni carcerarie. Ma alla fine la differenza la fanno davvero i singoli consoli: c’è chi vede l’assistenza ai detenuti italiani come una grande scocciatura che fa parte del mestiere di ambasciatore e chi invece percorre centinaia di chilometri in macchina di notte per portare aiuto. Un gesto fondamentale. Perché il rischio è che il carcere - qualsiasi carcere come esemplifica la nuova serie televisiva americana "The new black is orange" - ma a maggior ragione quelli in terra straniera, renda i detenuti molto meno umani di quando sono entrati.