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 2013  agosto 23 Venerdì calendario

NIGERIA, MALEDETTO PETROLIO

Gli attentati dell’altra domenica, gli ultimi, in due moschee del Nord hanno fatto 56 morti. Nessuna rivendicazione. Ma non è un mistero quale sia la firma: "Boko Haram", più o meno letteralmente "la cultura occidentale è proibita". Una risposta all’offensiva dell’esercito regolare nigeriano che cerca di distruggere le basi del gruppo fondamentalista islamico con legami con Al Qaeda. E che è riuscito a uccidere il numero due dell’organizzazione, Momodu Bama, alias Abu Saad, considerato il braccio destro del leader Abubakar Shekau (sulla cui sorte c’è mistero) in uno scontro a fuoco alla vigilia di Ferragosto, durante uno dei raid decisi come risposta all’ennesimo massacro. Boko Haram da dieci anni semina terrore e le sue azioni si sono fatte più serrate negli ultimi tempi: 550 vittime nel 2011, 750 nel 2012, cifra destinata ad essere superata quest’anno. I nigeriani piangono i morti e contano anche i danni collaterali, soprattutto economici. Sei miliardi di euro di investimenti esteri in meno a causa della minaccia terroristica, ha stimato la Banca centrale. E Sam Nzekwe, ex presidente dell’Associazione nazionale dei contabili chiosa amaro: «Come possiamo immaginare che degli stranieri portino i loro soldi dove esplodono sempre più bombe?».
Eppure, anche senza quei sei miliardi, la Nigeria, 167 milioni di abitanti divisi in parti pressoché uguali tra cristiani al Sud e musulmani al Nord (dove Boko Haram vorrebbe instaurare una Sharia, la legge coranica, ancora più restrittiva di quella già in vigore dal 1999 in dodici Stati della Repubblica Federale), potrebbe sognare un futuro prospero forte com’è di una crescita annua del Prodotto interno lordo stabilmente attestata tra il 6 e l’8 per cento (nel 2013, il 7) persino negli anni della crisi economica globale. Se non fosse che la ricchezza finisce in poche tasche e la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Anche a causa di una corruzione vorace al punto da collocare il Paese al 137 posto sui 174 monitorati da "Transparency international". Il cui cofondatore, l’economista Obiageli Ezekwesili, nigeriano, già vicepresidente della Banca Mondiale per l’Africa, calcola: «Dall’indipendenza del 1960 ad oggi almeno 400 mila milioni di dollari di entrate per il petrolio sono stati rubati o malgestiti».
Il petrolio. Possibile soluzione di ogni problema e invece fonte di molte delle piaghe che stanno devastando un Paese che potrebbe essere potenzialmente tra i più prosperi del mondo. La Nigeria ne produce due milioni e mezzo di barili al giorno (la quantità più alta dell’intero Continente Nero). Ma a causa dell’assenza di raffinerie efficienti è costretta a importare praticamente tutto il combustibile che consuma, prevalentemente dagli Stati Uniti. Il greggio è inoltre la principale causa di fortune smodate e paradossali. Valga per tutti l’esempio dell’imprenditore Aliko Dangote. Secondo la classifica di "Forbes" è l’uomo più ricco dell’Africa con un patrimonio personale di 200 miliardi di dollari, nonostante sia originario dello Stato di Kano, nel nord, una delle regioni più povere della Nigeria dove prospera l’analfabetismo e recentemente i leader religiosi si sono persino opposti a una campagna di vaccinazioni anti-poliomielite sostenendo che causa l’infertilità e persino la trasmissione del virus dell’Aids. Scorrendo la stessa classifica della rivista, tra i 40 africani più ricchi si trovano ben 11 nigeriani. Molti hanno fatto fortuna grazie al loro ruolo di rilievo nei governi che si sono succeduti. Come il generale Theophilus Danjuma, ex ministro della Difesa (600 milioni di dollari); o Sani Bello, ex ambasciatore in Zimbabwe (425 milioni) per arrivare a Mohammed Indimi (550 milioni), parente dell’ex presidente Ibrahim Babangida. Altri hanno costruito la loro fortuna grazie agli interessi diretti nell’oro nero.Come l’imprenditrice Folorunsho Alakija, considerata la donna nera più ricca del mondo, che ha poi spaziato nei settori della moda. O Hakeem Bello-Osagie, oggi proprietario del colosso finanziario Premium Telecommunications Holding, ma negli anni ’80 consigliere del governo proprio nel settore della massima ricchezza nazionale.
Molto a pochi. E pochissimo a molti. Secondo il servizio nazionale di statistica quasi il 69 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà e un quarto è disoccupato. Il suo direttore Yemi Kale ammette: «Per incredibile paradosso la proporzione dei nigeriani in miseria cresce in modo direttamente proporzionale all’aumento del Pil». Con differenze evidenti all’interno della Repubblica Federale. Il Nord musulmano è assai più povero con una punta estrema nello Stato di Sakoto (terra del leader spirituale islamico, il sultano Alhaji Muhammad Sa’ad Abubakar) dove l’81 per cento della gente vive con meno di un dollaro al giorno. Mentre, per fare un paragone col Sud cristiano, nello Stato dell’ Osun la percentuale di estremamente poveri scende al 38 per cento. E un andamento demografico con curva iperbolica fa aumentare praticamente ogni giorno il numero dei derelitti. Per dare un’idea, la Nigeria aveva poche decine di milioni di abitanti negli anni ’50, presto raggiungerà i 200 e, per quel che valgono le proiezioni demografiche, dovrebbe toccare i 400 milioni nel 2050, oltre 800 nel 2100. Il che la fa un potenziale mercato appetibilissimo. Se non fosse per la corruzione e per quella che è diventata, nei numeri, una vera guerra.
Boko Haram ha fatto la sua comparsa dieci anni fa. E si è alimentata, oltre che col proprio fanatismo, con la disparità evidente tra le due aree del Paese. Non avrebbe potuto raggiungere le dimensioni che ha senza il senso d’ingiustizia che regna al Nord. E senza alcuni appoggi inconfessabili. Riconosce l’imam Hussein Zakaria, uno dei principali leader religiosi: «Se il governo, al sorgere dell’organizzazione, non l’avesse guardata con benevolenza, lo sviluppo di Boko Haram sarebbe stato impossibile». E cita un caso concreto: «Nel gennaio del 2012 uno dei principali sospettati per un massacro, quello di Madalla, fu arrestato mentre si trovava nella residenza del governatore di Borno, Kashim Shettima. Pochi giorni dopo riuscì a evadere. Impossibile senza protezioni in alto loco».
E ancora. Nel 2011 il generale Jeremiah Useni, presidente dell’ Arewa Consultative forum (organizzazione dei leader del Nord) ha accusato senza mezzi termini un altro governatore, Ali Modu Sheriff ,di appoggiare la cruenta milizia. Adesso il governo centrale invia l’esercito per tentare di arginare un gruppo almeno sinora tollerato. E chissà se è troppo tardi. L’organizzazione prospera anche se ha perso il suo fondatore Mohammed Yusuf morto nel dicembre del 2011 in un attentato che è considerato il paradigma dei paradossi nigeriani. Yusuf, benestante, laureato nella migliore università del Nord, "dandy" dal portafogli sempre gonfio e amante delle Mercedes Benz è stato trovato cadavere accanto a Innocent Korongo, un disederato che si poteva concedere, al massimo, un solo hamburger al mese nella catena di fast food locale Mr Bigg’s, dopo un attacco suicida contro la chiesa di Madalla, periferia della capitale Abuja.
Sarebbe tuttavia eccessivo attribuire a Boko Haram tutte le colpe per i guai di un Paese che ha anche altri focolai di tensione. Uno dei quali è il delta del Niger, dove sono attestate diverse compagnie petrolifere occidentali. Nel marzo scorso il Mend (Movimento per l’emancipazione del delta del Niger) ha annunciato il riarmo dei propri militanti in segno di protesta contro l’arresto di Henry Okah, ex leader del gruppo. Alle parole sono seguiti i fatti: almeno quindici persone ammazzate e la minaccia di dare inizio a un’ondata di attentati contro le moschee e di uccidere religiosi musulmani «per salvare il cristianesimo». Dietro gli enfatici proclami, anche ragioni più prosaiche. Nel 2009 il governo aveva concesso un’amnistia e garantito assistenza economica a diecimila militanti del Mend in cambio dell’addio alle armi. L’esecutivo era preoccupato degli attacchi contro i campi petroliferi occidentali e i sequestri di persona (avevano fruttato tra il 2006 e il 2009 almeno 80 milioni di euro in riscatti) che avevano ridotto la produzione di petrolio quasi della metà, a un milione e seicentomila barili al giorno. Le promesse di aiuti economici, sostiene oggi il movimento, non sono state mantenute e gli ex combattenti non ricevono alcun sussidio.
Il governo centrale si trova così stretto tra Boko Haram a Nord e una possibile recrudescenza in grande stile degli attacchi a Sud, in un "effetto sandwich" che strangola il Paese. Per uscire dalla morsa il presidente (dal 2010) Goodluck Jonathan ha annunciato la formazione di una commissione speciale per analizzare la possibilità di un’amnistia per i membri di Boko Haram. Ma visto che gli attacchi suicidi si ripetono con cadenza settimanale il tentativo di pacificazione sembra molto vano.
«La Nigeria è una barca che affonda e dove le aspirazioni della popolazione sono ignorate da una leadership tirannica», tuona Nuhu Ribadu, ex presidente della Commissione sui crimini economici e finanziari, oltre che una delle autorità morali più rispettate del Paese. Tutti gli studi lo dimostrano. Compreso un rapporto del Parlamento nigeriano che stima in 5 miliardi e mezzo di euro in tre anni (un quarto del bilancio del Paese) il costo della pessima gestione e il sistematico furto di combustibile da parte dei funzionari di governo. Pratica consolidata se si pensa che il presidente Sani Abacha, durante il suo mandato tra il 1993 e il 1998, si appropriò, ogni anno, dell’equivalente del 2-3 per cento del Pil del Paese . L’economista Frank Adejola continua tuttavia a vedere il bicchiere mezzo pieno: «La Nigeria è uno dei Paesi più sviluppati della regione ed esistono dei meccanismi per riformare l’industria del petrolio, semplicemente si ignora il problema». Ma agli occhi dei nigeriani suonano più sagge le parole dello scrittore Chinua Achebe, scomparso di recente: «L’unica cosa che abbiamo imparato dall’esperienza è che l’esperienza non ci insegna niente».