Federica Bianchi, L’Espresso 23/8/2013, 23 agosto 2013
SORELLE MUSULMANE
Non c’è nessuno nel negozio di alimentari di Hatem e Sobaya in una mattina di fine agosto. La saracinesca è alzata e il figlio Mohammed, un giovane campione di nuoto che come atto caritatevole lavora in piscina con i disabili, è seduto su una vecchia sedia di pelle nera dietro al bancone. Ma di clienti in arrivo lungo questo vicolo sterrato di Talbeya, un quartiere meridionale del Cairo, non se ne vedono proprio. «Ci stanno boicottando», spiega Sobaya, un’energica signora di 57 anni, coperta da capo a piedi con veli e gonne color marrone scuro: «Lo sanno tutti che siamo una famiglia di Fratelli musulmani».
Sobaya è una delle attiviste femminili della base della Fratellanza a cui la rivoluzione di due anni fa aveva acceso il sacro fuoco dell’impegno politico, oltre che sociale, nel nome del "bene del Paese". Ma dal 30 giugno scorso, quando milioni di egiziani si sono riversati in piazza Tahrir per chiedere le dimissioni di Mohammed Morsi, il primo presidente della moderna storia egiziana uscito dalle urne, il rancore e il disprezzo per il principale gruppo islamista del medio Oriente sono cresciuti.
Non solo la maggioranza della popolazione ha gioito nel vedere Morsi cacciato per mano del generale Al-Sissi, il nuovo volto forte del Paese, ma non ha battuto ciglio neppure quando l’esercito ha sgomberato nel sangue di centinaia di uomini e donne i sit-in di protesta organizzati dai Fratelli. Le immediate dimissioni da neo vicepresidente di Mohammed El Baradei, il leader del Fronte dei partiti secolari, sono state salutate dai suoi stessi colleghi di partito con disprezzo: gesto di un traditore e non, come è stato, quello di un premio Nobel per la Pace che, nonostante la profonda diversità di vedute con il movimento di Morsi, non poteva rimanere silente di fronte a troppa, inutile violenza usata con impunità dall’esercito come se la rivoluzione araba non fosse mai avvenuta.
Le lancette dell’orologio pare siano tornate vorticosamente indietro di due anni e mezzo. I militari hanno ripreso a sbattere in cella i capi dell’organizzazione islamica: oltre all’ex presidente Morsi e al predicatore d’odio Saftwat Hegazy - solo per nominarne alcuni - in prigione sono finiti anche il supremo leader della Fratellanza, l’anziano Mahmoud Badie, e il suo vice Khairat el-Shater, fine mente strategica, oltre a centinaia di membri dei vari livelli di potere di un’organizzazione rigorosamente gerarchica. Oggi, molto più che sotto Mubarak, ad essere nel mirino dei servizi segreti militari è un numero vasto di persone: si parla dei primi quattro livelli di potere dei Fratelli e di moltissimi politici del partito Giustizia e Libertà, con cui si sono presentati alle elezioni illudendosi davvero di potere trasformare l’Egitto nello Stato guida dell’Islam politico.
Tra i ricercati, per la prima volta, c’è anche qualche donna, delusa, se possibile, anche più dei suoi padri, fratelli e mariti. Con la rivoluzione del 25 gennaio e con l’uscita dalla clandestinità del movimento e la creazione di un proprio partito politico, le donne dei Fratelli avevano avuto la possibilità di partecipare alla politica attiva per la prima volta nella storia dell’organizzazione creata nel 1928 da Hassan al-Banna per diffondere l’Islam e poi diventata un attore politico con la lotta contro il colonialismo britannico. Una piccola rivoluzione al femminile. Anch’essa, come la Primavera araba egiziana, ora a rischio di una triste fine.
«In questi due anni le donne hanno lavorato nel partito a fianco degli uomini», spiega Sarah, una ventenne dagli occhi verdi chiari incorniciati da un velo verde scuro, che nel sit-in di Rabaa era attiva nel centro stampa dei Fratelli, raccogliendo testimonianze e prove sull’abuso dei diritti umani compiuto da polizia e militari e inviandole alle organizzazioni umanitarie: «In passato non era permesso loro occuparsi di politica per timore, come è anche successo, che venissero tenute ostaggio dai militari in cerca dei loro uomini». Quando la incontriamo sono tre giorni che Sarah non dorme nel suo letto: ha paura che i militari decidano di portare via anche lei per il ruolo che ha avuto a Rabaa, come è successo ad altre 250 donne.
Che polizia e militari in Egitto non vadano tanto per il sottile è ormai evidente dopo i massacri compiuti a Rabaa, a Nahda e a piazza Ramses nel mese di agosto, durante i quali 800 persone, in stragrande maggioranza Fratelli, hanno perso la vita. Tra loro c’erano anche i figli dei leader dell’organizzazione come Omar Badie, l’ingegnere trentottenne figlio della guida spirituale, e, a testimonianza del ruolo attivo che le donne avevano iniziato a svolgere per la causa, la diciassettenne Isra el-Beltagy, figlia di Mohammed el-Beltagy, oggi latitante. «Io ero lì e l’ho vista morire», racconta Sarah: «I suoi fratelli cercavano di portare via il corpo mentre l’esercito continuava a sparare». Isra era in piazza, disposta, come chiede il Corano, a morire da martire. «Stavi cercando nuovi orizzonti per fare risorgere e ricostruire la Umma così che possa assumere il posto che merita nel corso della civilizzazione», ha scritto il padre in una lettera pubblicata sui social network: «Non ti dico addio ma soltanto a presto».
All’interno dell’organizzazione dei Fratelli (che ha una struttura a fiocco di neve, composta da tanti piccoli gruppi il cui leader appartiene a un gruppo di livello superiore) le donne non hanno alcun diritto di voto se non al livello più basso, quello della "osra", ovvero la prima cellula in cui si è ammessi e che diventa una seconda famiglia. «È questo ciò che inizialmente mi ha attratto del movimento», spiega Sobaya: «Il senso di appartenenza ad un progetto importante, ad una causa più grande del singolo individuo. Si lavora insieme e nessuno è mai abbandonato nei momenti difficili». Il ruolo principale delle donne è quello di occuparsi dei programmi caritatevoli, fondamentali per propagandare e fare apprezzare la dottrina islamica, di diffondere gli insegnamenti di Allah nella comunità e di crescere i propri figli secondo rigidi criteri islamici affinché diventino combattenti dedicati anima e corpo alla causa della Fratellanza. Con la Rivoluzione però qualcosa era cambiato. «È stata la fondazione del partito Giustizia e Libertà a permettere un maggiore attivismo politico femminile», spiega Sobaya: «Le donne hanno potuto iniziare ad esprimere le proprie idee e ad aiutare gli uomini nelle decisioni perché non c’era più bisogno di stare in prima linea a rischiare la violenza fisica». All’interno del movimento continuavano ad avere un ruolo non politico, ma nel partito potevano sedersi accanto agli uomini.
Il volto di questa mini rivoluzione è Dina Zacaria, una specie di Daniela Santanchè egiziana, in versione giovane e velata, presenza costante sui grandi network televisivi e difensore a spada tratta di ogni decisione presa dal suo partito. «Non ci sono differenze tra uomini e donne per i Fratelli», tuona al telefono, dopo avere spiegato che con l’aria che tira incontrarsi di persona non è saggio e che il marito non le darebbe mai il permesso di uscire: «Sono una delle fondatrici del partito e seggo nel consiglio centrale. Nel sit-in di Rabaa ho organizzato il centro stampa e tenuto comizi dal palco a fianco degli uomini». Aggressiva più dei suoi colleghi, quando parla del deposto presidente Morsi non riesce a trattenere una smorfia di disappunto: «Certo che ha commesso errori, uno soprattutto: quello di non avere messo immediatamente i suoi uomini in ogni singola posizione chiave come avviene in ogni democrazia. Non avrebbe dovuto dare retta a nessuno, né perdere tempo ad ascoltare gli altri. Se l’avesse fatto non ci troveremmo oggi in questa situazione. Ma continueremo a combattere, ad organizzare manifestazioni lampo, a far sentire la nostra voce per riprenderci quello che abbiamo perso».
A condividere il disappunto di Zacaria, sebbene con toni molto più pacati derivanti dall’età e dal ruolo più marginale nell’organizzazione, è Sobaya El Gayar, una vedova di 60 anni, che non si è persa una sola manifestazione da due anni a questa parte. «In piazza io ci sono sempre andata», dichiara con orgoglio quando, dopo vari tentennamenti, decide di incontrarci facendosi accompagnare dalla giovane nipote in un caffè di di Heliopolis, il quartiere bene della capitale. «Con un numero crescente di mogli e madri impegnate in strada e in parlamento, alcuni Fratelli stavano ipotizzando di permettere il voto alle donne ad un livello superiore a quello base», racconta: «Adesso, con la deposizione di Morsi e il possibile ritorno dei Fratelli in clandestinità, è tutto finito. Le donne smetteranno di occuparsi di politica». Una pausa. «Forse dovrei organizzare un comitato che le aiuti».
Scavando tra le parole e i fitti strati di retorica codificata che l’organizzazione insegna (e impone) ai suoi membri, Sobaya sembra non essere completamente d’accordo con il modo in cui i Fratelli avevano conquistato il potere in Egitto. «Avrebbero dovuto evitare di candidare un nostro presidente come avevano detto all’inizio della rivoluzione», spiega: «Per non entrare in collisione con gli altri, non l’ho mai detto pubblicamente ma ho subito pensato ad Hamas in Palestina: hanno vinto le elezioni ma poi erano odiati da tutti. Temevo che succedesse anche a noi. Ed è successo».
Non è facile dimostrare disaccordo in un movimento che premia il pensiero conforme. Nessuno, donna o uomo che sia, è disposto a riconoscere gli errori dei loro capi e ad ammettere la loro responsabilità per le violenze delle settimane scorse: gli incendi appiccati ad oltre 80 chiese in tutto il Paese, le torture ed uccisioni di uomini ritenute delle spie durante i cosiddetti "sit-in pacifici", l’uccisione di poliziotti e civili. «I Fratelli sono pacifici e pii», ripetono all’unanimità, come un mantra, le loro donne, scaricando esclusivamente sulla stampa la responsabilità dell’odio del Paese verso di loro e sulla polizia e i suoi banditi prezzolati ogni tipo di omicidio e vandalismo. Qualsiasi analisi, autocritica o introspezione pubblica è bandita. Soprattutto nelle ore critiche di oggi. Compattezza innanzitutto. A sostituire Badie è stato nominato Amr Ezzat, suo compagno di "osra", vecchio dal pugno di ferro. Altro che donne in politica. Adesso è il momento di resistere e non di affascinare. Il progetto politico è tornato ad essere ideale ma non è cambiato. L’obiettivo rimane la creazione di una nazione islamica basata sulla sharia, da ottenere ad ogni costo. «Il problema è che lo Stato moderno non si fonda su nessun criterio morale che è invece il presupposto della sharia», taglia corto Menna Elmassy, attivista per i diritti umani e nipote del braccio destro di el-Banna. Un controsenso per liberali e laici. Che costretti dai Fratelli a scegliere tra due assolutismi - sharia o esercito - non hanno avuto dubbi. Anche a costo di mandare in soffitta la rivoluzione. Almeno per il momento.