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 2013  agosto 22 Giovedì calendario

LA BANCA CENTRALE INDIANA SI ARRENDE E INIETTA LIQUIDITÀ

La banca centrale indiana alza bandiera bianca e si arrende al crollo della rupia. Rinnegando la politica di strette al credito inaugurata appena un mese fa, ieri ha annunciato un programma di acquisto di bond a lunga scadenza e domani comprerà 1,26 miliardi di dollari di obbligazioni. A questo primo intervento ne seguiranno altri, via via calibrati in termini di frequenza e volumi, secondo quanto ha spiegato la stessa banca centrale che tornerà anche ad allentare alcuni dei paletti posti agli istituti di credito. La rupia è precipitata al nuovo minimo storico sul dollaro toccando quota 64,55, tre mesi fa per comprare un biglietto Usa ne bastavano 55. Male anche la Borsa, che ha lasciato sul terreno l’1,8%, bruciando il piccolo rimbalzo seguito all’annuncio.
Fino a martedì, la rupia aveva perso quasi il 14% dal 22 maggio, quando la Fed ha accennato alla prossima fine del suo quantitative easing. La banca centrale ha deciso di difendere il cambio e frenare l’inflazione anche a scapito della crescita economica. Così, pur senza alzare direttamente i tassi di riferimento (al 7,25%), ha ridotto la liquidità concessa alle banche costringendole ad alzare i saggi sui prestiti alla clientela. E ha bruciato miliardi di riserve valutarie. Con il risultato di far lievitare i rendimenti sui titoli di Stato decennali fino al 9,5% (ieri sono scesi all’8,2%) e frenare un’economia già rallentata ai minimi da dieci anni. Ma senza riuscire ad arginare il crollo della rupia, determinato dalla fuga di capitali che sta colpendo tutte le economie emergenti. In tre mesi, i mercati indiani, soprattutto quelli del debito, hanno visto volatilizzarsi 12 miliardi di dollari, ritirati dagli investitori esteri. Ieri, resesi conto di non poter vincere la partita, le autorità monetarie hanno deciso di cambiare strada e scegliere la crescita a scapito del cambio. Un ruolo può averlo giocato l’ormai prossimo avvicendamento alla guida della banca centrale: il 4 settembre Raghuram Rajan, stretto consigliere del ministro delle Finanze Palaniappan Chidambaram, prenderà il posto di Duvvuri Subbarrao. Fedele al mandato di controllare l’inflazione (i prezzi al consumo crescono quasi del 10%), Subbarrao si è sempre opposto al taglio dei tassi, chiesto a gran voce dal mondo industriale e dallo stesso Chidambaram.
La fuga di capitali, tanto più pericolosa per un Paese che convive con deficit commerciale pari al 4,8% del Pil, è stata alimentata anche dalla sfiducia nelle autorità politiche e monetarie, che hanno inanellato una serie di interventi inefficaci, se non goffi. A parte il giro di vite sul credito, ora rimangiato, sono state aumentate le imposte sull’importazione di oro e metalli preziosi, è stata limitata la libertà di esportazione dei capitali e per finire sono stati tassati gli elettrodomestici comprati all’estero dai turisti indiani e riportati a casa alla fine delle vacanze. E l’inversione di rotta di ieri non contribuirà a rafforzare la credibilità della banca centrale. Anzi.
Se la crisi dovesse aggravarsi, le multinazionali potrebbero cominciare a riconsiderare la loro presenza in India. Quando l’economia cresceva a tassi medi dell’8% l’anno, come accadeva tra il 2004 e il 2011, le prospettive di sviluppo superavano i rischi e le difficoltà legate all’arretratezza delle infrastrutture, alla corruzione, alla scarsa liberalizzazione del mercato, alla burocrazia. Per la giapponese Suzuki Motor, ad esempio, che detiene il 56% della Maruti Suzuki, il calo della rupia potrebbe far scendere gli utili, secondo quanto riferito all Wall Street Journal da un portavoce. Questo perché le componenti importate dal Giappone costano di più, come pure le royalty pagate alla casa madre, dato che sono denominate in yen. Una situazione che si ripete per gran parte delle imprese manifatturiere. Samsung Electronics il mese scorso ha alzato i prezzi dei suoi telefoni cellulari del 2-3% per compensare i maggiori costi sostenuti per importare componenti.
C’è chi perde, ma c’è anche chi vince. Per i gruppi indiani che lavorano in outsourcing, gran parte delle vendite sono fatturate in valuta estera e poi convertite in rupie e quindi l’apprezzamento del dollaro gonfia gli utili. E c’è anche chi, di fronte all’accelerazione della fuga di capitali, fa notare che le condizioni strutturali del Paese oggi sono le stesse di tre mesi fa.