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 2013  agosto 22 Giovedì calendario

COSÌ HO RISCHIATO DI MORIRE A PASSEGGIO NELLO SPAZIO

Mentre faccio all’inver­so il percorso verso l’airlock, la sensazio­ne che l’acqua stia aumentando diventa una certezza: la sento co­prire il tessuto spugnoso delle cuffie, e mi chiedo se perderò il contatto audio. L’acqua ricopre inoltre quasi del tutto la parte frontale del mio visore, al quale aderisce riducendomi la vista. Mi accorgo che per poter supera­re una delle a­ntenne nel mio per­corso dovrò riposizionare il mio corpo verticalmente, anche per permettere al mio cavo di sicu­rezza di riavvolgersi regolarmen­te. E in quel momento, mentre mi po­siziono a «testa in giù», due cose succedono contempora­neamente: il sole tramonta, e la mia capacità di vedere, già ridotta dall’acqua, svanisce del tutto rendendo inutilizza­bili i miei occhi; e, molto peg­gio, l’acqua ricopre il mio na­so – una sensazione davvero sgradevole, peggiorata dai miei sforzi, inutili, di sposta­re l’acqua dal mio volto scuo­tendo la testa. La parte supe­riore del casco è ormai piena di acqua, e non so neanche se la prossima volta che respire­rò­dalla bocca riuscirò a riem­pirmi i polmoni di aria e non di liquido. A complicare il tut­to, mi rendo conto che non so­no neanche in grado di capi­re in che direzione andare per rientrare all’airlock: rie­sco a vedere solo per poche decine di centimetri intorno a me, e non riesco a individua­re neanche le maniglie che utilizziamo per muoverci in­torno alla Iss.
Provo a contattare Chris e Shane: li ascolto mentre par­lano fra loro, ma il volume è ormai bassissimo, li sento a malapena e loro non sentono me. Sono solo. Penso furiosa­mente a un piano d’azione. È fondamentale rientrare al più presto dentro: so che se re­sto dove sono, Chris verrà a prelevarmi, ma quanto tem­po ho a disposizione? Impos­sibile determinarlo. Poi mi ri­cordo del cavo di sicurezza, la cui molla di riavvolgimen­to ha una forza di circa 3 lib­bre che mi «tira» verso sini­stra. Non è molto, ma è l’idea migliore che ho al momento: seguire quel cavo fino all’air­lock. Mi impongo di restare calmo e con pazienza, cercan­do le maniglie al tatto, inizio a spostarmi, cercando con­temporaneamente di pensa­re a come eliminare l’acqua se dovesse giungere fino alla bocca. L’unica idea che mi viene in mente è di aprire la valvola di sicurezza vicino al­l’orecchio sinistro: creando una depressurizzazione con­trollata, dovrebbe riuscire a svuotare un po’ dell’acqua, almeno finché questa, congelandosi istantaneamente per sublimazione, non dovesse bloccare il flusso. Ma creare un «buco» nella tuta spaziale è davvero l’ultima carta da giocarsi.
Mi sposto per quello che sembra un tempo lunghissi­mo (e che so essere pochi mi­nuti). E finalmente, con gran­de sollievo, riesco a intrave­dere, oltre la cortina di acqua davanti ai miei occhi, la co­pertura termica dell’airlock: ancora poco e sarò al sicuro. (...) Cercando di muovermi il meno possibile, per evitare movimenti dell’acqua den­tro il casco, continuo a dare informazioni sul mio stato di salute, ripetendo che sto be­ne e che la pressurizzazione può continuare. Adesso che stiamo ripressurizzando la cabina, so che nel caso l’ac­qua dovesse sopraffarmi po­trei sempre aprire il casco: probabilmente perderei co­noscenza, ma sarebbe co­munque meglio che annega­re dentro il casco. A un tratto Chris mi stringe il guanto con il suo, e gli faccio il segno uni­versale di «ok» con il mio: l’ul­tima volta che mi ha sentito parlare è stato prima di entra­re nell’Airlock! (...) Lo spazio è una frontiera, dura e inospitale, in cui noi siamo ancora degli esplorato­ri e non dei coloni. La bravu­ra dei nostri ingegneri, e la tecnologia che abbiamo a disposizione, fa sembrare sem­plici cose che non lo sono, e a volte forse lo dimentichia­mo.
Meglio non dimenticare.