Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  agosto 22 Giovedì calendario

COSA FARÀ IL CAVALIERE

Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi al­l’inizio di settembre? Tutti si arrovella­no, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha ri­sposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un’intervista, ma quel che resta di una con­versazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare. Che cosa farà dunque l’ex presidente del Con­siglio? Se ho capito bene, sta preparando una ve­ra lezione di storia. Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Pa­ese. Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere docu­menta la sua innocenza e l’ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testi­moni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l’as­surdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ri­corso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (pri­ma o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un’antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori. Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratu­ra. La sua tesi è che il problema non è tanto quel­lo­di un’entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chia­mata Magistratura democratica. Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a se­guire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d’assal­to»? - i loro congressi, le pubbli­cazioni, i dibattiti.
Non ne mancavo uno e li tro­vavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c’è un deficit di de­mocrazia che sarebbe stato col­mato soltanto quando la sini­stra, allora comunista, sarebbe andata al potere.
I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magi­stratura democratica, appun­to) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giusti­zia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l’avanzata del­la sinistra». A me, allora che ave­vo quarant’anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora.
Non ce ne fregava assoluta­mente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fos­se buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di libe­rale: la parola «libertà» la trova­vamo utile per le lapidi e le can­zoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché veniva­mo da una scuola di pensiero ­comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazional­socialisti del secolo scorso - se­condo cui l’unica cosa che im­porta è la presa del potere, possi­bi­lmente per vie legali e de­mocratiche (ma senza rinunciare ad altre opzio­ni­che la Storia nella sua genero­sità può metterti a disposizio­ne) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto diffi­cile, ha bisogno di bravi gineco­logi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi.
«La rivoluzione non è un pran­zo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall’idea «borghese» del giudice ter­zo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull’attaccapanni.
Qualcosa di analogo avveni­va in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre del­la psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spes­so a prendere un caffè da me. Ba­saglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esi­ste la malattia mentale, ma sol­tanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e para­noia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i ma­nicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente del­la borghesia stessa, ovvero la fa­miglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incrimi­nata con il bel risultato di far ac­cata­stare negli anni più di dieci­mila morti per violenze psichia­triche, come documentò l’indi­menticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovem­mo insieme in Senato anni orsono.
È sintomatico come due cardi­ni r­egolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allo­ra­seguitino a diffondere le con­seguenze di quella distorsione ideologica.
Ma torniamo alla chiacchie­rata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissi­mi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dal­la loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l’esercizio di una giusti­zia indipendente, tale da garan­tire ogni cittadino a prescinde­re dalle sue idee. Volevano, al contrario, garan­tire la vitto­ria di chi stava sul car­ro della presa del potere e procu­rare la sconfitta di chiunque fos­sa dalla parte opposta e ostaco­lasse la sinistra. La fedina pena­le di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gio­iosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffi­che di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capo­ne che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: « Nothing personal: it’s just busi­ness». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e faceva­no fuoco.
Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistra­ti sembrano comportarsi come se fossero animati da quell’anti­co modo di intendere la giusti­zia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le di­chiarazioni politiche dei magi­strati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfetta­mente a che cosa si riferiva.
Spesso si leggono delle espres­sioni sarcastiche sulla questio­ne delle «to­ghe ros­se» , come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tut­to inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso an­che - calendario e fatti alla ma­no - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli ele­menti per scatenare una campa­gna moralizzatrice sulle rube­rie della politica, sulla commi­stione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A’ Fra’ che te serve».
La risposta della magistratu­ra fu il silenzio di tomba. Il siste­ma di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allo­ra benissi­mo anche a quella par­te della magistratura democrati­ca che soltanto quando partì la parola d’ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gri­dando allo scandalo, alla neces­sità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato.
L’operazione Mani pulite an­nunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell’acqua calda, annunciando che i partiti pren­devano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall’Urss. Anzi,il reato commes­so dal Pci, che importava capita­li in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di eva­sione fiscale! - veniva usato co­me alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andia­mo a prelevare dalle tasche de­gli imprenditori.
La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva co­me forma di tor­tura che condusse molti al suici­dio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pal­lottola nella tempia dopo esser­si fatto una lunga doccia purifi­catrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli ita­liani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani.
Mentre la memoria mi ripor­tava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guil­lotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tra­dotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una suppo­sta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi.
E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, so­no finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sot­tratto al fisco ben 17 mi­liardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricor­do di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le azien­de di Berlusconi han­no versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condan­nato alla galera per una suppo­sta evasione dell’1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c’è qualcosa che non quadra?
Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiede­rà la grazia, non chiederà i servi­zi sociali, non chiederà i domici­liari, non chiederà nulla: c’è in ballo un enorme problema poli­tico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l’ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt’altro che depresso e rasse­gnato.
Paolo Guzzanti