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 2013  agosto 22 Giovedì calendario

MUHAMMAD ALI’: “PER ESSERE QUALCUNO FA’ CHE NON TI AMINO"

Cassius Clay è il più celebre campione della storia del pugilato: sconfitto cinque volte su 61 incontri disputati nella prodigiosa carriera, di cui 25 per il titolo mondiale. Convertitosi all’islamismo ed entrato a far parte dei Musulmani Neri, prende il nome di Muhammad Alì. Quando gli Stati Uniti dichiarano guerra al Vietnam, lui si rifiuta di arruolarsi: “Io non ho nulla contro i vietcong, nessuno di loro mi ha mai chiamato negro”. Condannato a cinque anni e a una ammenda di cinque milioni di dollari, grazie ai suoi avvocati, evita la galera ma per quattro anni rimane lontano dal ring. Torna a combattere nel 1971. Un miliardo di uomini, un terzo degli abitanti della Terra, ha assistito alla tv al suo incontro con Joe Frazier, il secondo nel 1974, quello della rivincita, il primo era stato vinto da “Zio Joe”, così Clay chiamava Frazier. Anche il terzo, valido per il titolo, è a favore di Cassius. Il ring gli ha fruttato 100 milioni di euro. Dice di sé: “Non s’era mai visto un uomo così famoso da essere costretto a raccontare la propria vita in un libro e a riviverla in un film prima ancora di avere compiuto 35 anni. E non c’è mai stato un uomo così bello da poter interpretare, a 35 anni, in un film, se stesso dall’età di 19 anni in poi. Naturalmente questo individuo straordinario sono io”. Oggi Cassius Clay, 71 anni, sposato quattro volte, nove figli, è affetto dalla sindrome di Parkinson. L’intervista è del 1974 quando Cassius, diventato Muhammad Alì, ritorna a essere campione del mondo sconfiggendo George Foreman.
Clay, come si diventa campioni?
Bisogna prima di tutto avere un talento naturale e poi svilupparlo. Io credo anche che, per essere veramente campioni, occorra dimostrarsi non soltanto grandi atleti, ma anche veri uomini in senso assoluto. Io, ad esempio, sono il più forte dei pesi massimi, e secondo me questo va oltre la boxe, ma rappresenta altre cose. Ciò significa avere una vita completa ed essere in testa nel senso più ampio del termine, che per me vuol dire servire la gente. Spesso mi piacerebbe fuggire da tutto, pubblicità e televisione e apparizioni nelle scuole e voli da ogni parte e amici che mi chiedono prestiti e gente che implora soldi di cui ha bisogno; e io a un certo momento non ne ho voglia e finisco per cavarmela dicendo: “Quando suona il telefono, dite che non mi trovate”. E se posso scappare per un giorno, sono felice. Poi penso che tutto questo ha un significato, penso agli effetti della mia missione che è diffondere la causa islamica e la fede. C’è un’altra cosa che voglio dire: periodicamente cambiano le “ragioni” del combattere . Per ogni avversario c’è sempre una “nuova” ragione. Io ho cominciato a misurarmi nel 1954, quando avevo solo dodici anni, nella mia vita ho sempre combattuto.
Quando è scattata la molla? Come ha fatto a costruire il suo personaggio?
Dal primo giorno in cui sono diventato un professionista della boxe, mi sono messo a fare l’attore. Perché? Allora la gente diceva di me: “Quello non arriva da nessuna parte, quello è un nessuno”. Era l’immagine che a quel tempo si aveva, in America, dei neri. Si diceva: “Quegli sporchi negracci”. I neri erano considerati gli esseri inferiori, la classe schifosa. Per reazione, mi sono messo a proclamare: “Sono il più grande ! Sono meraviglioso!”. Era proprio per quello: per infondermi un pizzico di fiducia. Questo mi provocò una marea di ostilità: molti presero a odiarmi. Non potevano sopportare quel lurido negro. “Bisogna tappargli la bocca” dicevano, e sono stati pagati milioni, milioni e milioni di dollari, lo giuro, per farmi tacere. Avevo capito che a questo mondo, per essere qualcuno, devi fare in modo che la gente non ti ami. La gente deve impazzire di sorpresa per quello che fai, non è necessario che ti ami. Io questa cosa l’ho imparata da un lottatore, un grande lottatore americano: lo chiamavano Gorgeous George, Giorgio il Bello. Una volta andai a vedere la lotta e sentii le spacconate di quel tipo. Diceva: “Io posso distruggere chiunque, Dio, io sono troppo bello per fare il lottatore. Se quel maledetto che incontro stasera mi scompiglia i capelli, cosa faccio?”. Parlava a raffica, come una mitragliatrice. Io dissi, tra me e me: “Oh, Dio, che cosa succede adesso, se quest’uomo perde dopo che ha fanfaronato tanto?”. Fui assalito dalla curiosità e andai a vederlo combattere, anche se a me la lotta ripugna. Caspita, ragazzi! C’erano diciottomila persone a vederlo. E lo odiavano tutti dal primo all’ultimo. La sua arroganza li faceva impazzire: quando entrò nell’arena, tutto bello, biondo e lisciato, gli abbaiarono contro e molti lanciarono sul ring i cartocci vuoti del popcorn. E lui non li guardava neppure: portava dei monili d’oro e indossava una sontuosa vestaglia di seta e c’erano tre splendide ragazze bionde a reggergliela perché non si strascicasse per terra. “Stronzo” gli gridava la folla. E allora lui saltò in platea, afferrò un tizio per la barba e cominciò a menarlo, attizzando il furore del pubblico. Poi ho scoperto che era tutto combinato: quel tale con la barba faceva parte della sua claque, capisci? Quando si ritirava nel suo angolo, i secondi gli facevano fare il bagno nel deodorante e anche nei posti più lontani ti arrivava la tanfata di quel profumo disgustoso. George vinse, ma non per questo la gente lo trovò più simpatico di quando era arrivato. Salutarono la sua uscita con un boato di disapprovazione; e lui rideva disprezzandoli, perché l’unica cosa che contava era che diciottomila persone avevano pagato salato il biglietto per togliersi la soddisfazione di gridargli che lui gli stava sulle palle, che lo odiavano. George si prese il loro odio, e soprattutto, i loro soldi, e la mattina dopo li versò in banca, felice. Sicché io dissi a me stesso: “Anche tu che sei un negro devi imparare da questi bianchi”. Sentivo parlare di incontri di boxe che facevano guadagnare milioni, e li organizzavano quei tipi che controllano tutto lo sport. Loro sì che erano dei geni nel vedere IL DOLLARO, IL DOLLARO! Allora io mi domandai: “Come potrei fare per riempire anch’io queste arene?”. E per fare colpo sulla gente, cominciai a proclamare: “Sono il più grande!”. Al che la gente commentò: “Ma quanto parlano questi sporchi negri! Ma come sono arroganti questi negri schifosi!”. E io come se nulla avessi inteso, comincio a moltiplicarmi: faccio vedere loro un me, due me, tre me, una intera proliferazione di me. E parlo e parlo. È andata così che sin da allora ho fatto l’attore.
Il campione è sempre “il migliore”?
Il campione è il migliore solo se è nel massimo della forma. Se non raggiunge la sua condizione più brillante, non può essere il migliore. Si vince se si è in forma e in armonia con se stessi. Una regola dello sport, e forse anche della vita in generale, è di presentarsi sempre nella pienezza dei propri mezzi. Allora si è “il migliore”: se si riesce cioè a conseguire, con il sacrificio, la preparazione, la serietà e la disciplina, un rendimento medio, costante. Nel caso del campione, significa essere sempre il più bravo di tutti.
È vero che gareggiare, che condurre bene una partita o un incontro, è più importante della vittoria finale?
Non direi. Lo sport ha delle leggi precise: e una di queste è proprio il fatto che su una contesa sportiva deve esistere un verdetto netto e inequivocabile. Vincere è molto più importante che concorrere bene e onorevolmente. In un incontro, in una partita, c’è uno sconfitto e un vincitore. Lo sport richiede che sui valori si stabilisca un giudizio chiaro: che il rapporto di bravura sia riconosciuto senza possibilità di dubbio, in modo che anche il perdente ne sia lealmente convinto. Direi quindi che la vittoria è un elemento indispensabile, un coronamento necessario della gara sportiva. Deve essere ben chiaro che vincere significa anche condurre il combattimento con la massima cavalleria, il campione deve essere il più tecnico e deve affascinare. Non si devono mai violare le leggi dello sport e la gara deve essere onesta.
Che cosa le ha insegnato il combattimento?
Ho imparato che, se sei un uomo giusto, le cose si mettono sempre a posto. Io sono la figura più controversa del pianeta, ho avuto scandali con le mie mogli, ho avuto guai con il governo. Ma non mi è mai successo niente di troppo grave. Sai che non tengo guardie del corpo? Non le voglio. Perché nessuno può cacciarmi in prigione, nessuno può farmi del male, nessuno può toccarmi. Perché io sono un uomo giusto. A New York c’è una clinica per handicappati, alla mattina mandano il pullman a prendere a casa quei poveri disgraziati ed essi passano lì tutta la giornata a dipingere, a disegnare, a cucinare, a imbiancare le stanze. Quel posto dovevano chiuderlo perché non avevano più soldi e nessuno delle migliaia di milionari di New York dava un cent per tenerlo aperto. Io ho dato centomila dollari per conservare quel rifugio a quei disgraziati e sai che cosa mi è successo? Il giorno dopo mi capita il contratto per incontrare in una curiosa esibizione un famoso lottatore di Tokyo. Un contratto da sei milioni di dollari! Hai capito? Dio mi aveva ricompensato per la mia generosità. Più l’uomo è spirituale e meno si preoccupa delle cose. Mi piace questa frase: “Più vicino mi ritrovo a Dio, più le cose del mondo perdono il loro profumo terrestre”. Io sono molto spirituale. Mi ci ritrovo sia nel Corano che nella Bibbia. Vado ai funerali, guardo e tocco i morti. Sai cosa vuol dire toccare un morto? Uno che conoscevi e che ora non vedrai mai più? Ti ricorda che anche tu, tra poco non ci sarai più. Che tu sia nero o bianco, ricco o povero, americano o italiano, sempre la morte ti attende. Allora quando sarai morto, lassù nessuno ti domanderà se hai battuto Sonny Liston o se hai fatto delirare le folle con un film o se hai scritto un buon articolo. Verrà Dio e ti dirà: “Cos’hai fatto di buono? Hai regalato dei soldi per costruire l’ospedale? Sei stato umile? Hai fatto l’autografo per il ragazzo nero? Hai scaldato sul tuo petto la ragazzina nera che aveva gridato: ‘Forza campione!’?”. Biagi tu credi a queste cose?
Sì, penso che prima o poi qualcuno giudicherà il nostro operato.
La gente istruita non crede in Dio. Tu forse speri di diventare un grande scrittore e studi per arrivarci, ma Gesù non era mica istruito. Ciò di cui mi preoccupo ogni giorno è soltanto di acquistarmi dei meriti per quando dovrò presentarmi lassù. Tanto so che qui sulla terra la mia missione l’ho adempiuta bene. Posso presentarmi tranquillamente alla televisione e dire: “Sentite voi, quattro miliardi di uomini che abitate il pianeta: io posso spaccare individualmente la faccia a ciascuno di voi. Non c’è nessuno fra tutti voi che abbia la forza di buttarmi per terra a pugni. E allora sono il più bravo, il più forte”. Ci pensi? Quattro miliardi di persone, e in cima ci sono io! E questo non è forse qualcosa?
Chi è il più grande atleta che ha conosciuto?
Tra quelli che ho incontrato, che ho battuto?
In assoluto.
Preferisco rispondere su quelli che ho incontrato, perché mi pare che uno sportivo arrivi a conoscere veramente solo gli atleti con i quali si misura. Il più bravo in senso assoluto è Joe Frazier. Un grandissimo campione, che mi onoro di avere affrontato e vinto. È vero che lo avevo spesso ridicolizzato e beffato, lo chiamavo “il gorilla”. Su Frazier ho fatto poesie come questa: “Sarà un giallo, un omicidio, una emozione, quando potrò incontrare lo scimmione”. Ma al di là di queste schermaglie polemiche, con cui io mi diverto ad animare le mie esibizioni, devo dire che Frazier è un magnifico avversario, di grande coraggio e di straordinaria correttezza, che mi ha messo in seria difficoltà costringendomi a dar fondo a tutte le mie capacità. Lo stimo e lo ammiro e credo che, a parte me stesso, egli sia l’atleta che incarna nel modo più completo il mio ideale di campione.