Sergio Luciano, Panorama 22/8/2013, 22 agosto 2013
UN UOMO CON TROPPO CREDITO
Chissà se Romain Zaleski riuscirà a vincere quest’ultima partita a carte contro le banche. Chissà se gli basterà, anche stavolta, una «difesa a doppio morto» (come quelle a bridge, magistrali, che ha appena sfoggiato piazzandosi secondo ai campionati europei a Ostenda) contro l’offensiva legale e societaria che gli avvocati dell’Unicredit stanno preparando in questo scorcio d’agosto. Certo è che per l’ottantenne finanziere, patron del gruppo Tassara, è suonata la campanella dell’ultimo giro. O accetterà le condizioni dei creditori, o vedrà la sua holding in liquidazione coatta. Fallimento, insomma.
E quali sono queste condizioni? Innanzitutto cedere lo scettro del comando alle banche, cioè ridursi in minoranza in consiglio. E soprattutto accettare che tutti gli asset siano venduti al più presto, nessuno escluso: nemmeno la pupilla industriale, la centenaria MetalCam di Breno che produce componenti in acciaio speciale per oleodotti, 500 dipendenti, 100 milioni di fatturato, ma 200 di debiti. Il vecchio finanziere vuole tenerla fuori; l’Unicredit non ammette deroghe, convinta che l’azienda, se ben gestita, potrà rivalutarsi e di molto. E forse lo scontro si consumerà proprio sulla MetalCam, più che sulla governance e sulle partecipazioni finanziarie: perché MetalCam significa Val Camonica, significa salotto bresciano, significa trent’anni di amicizie che Zaleski non vorrebbe rovinare, dal re della valle Giuseppe Camadini al suo importante amico Giovanni Bazoli, il primo a sdoganarlo nel sistema finanziario italiano, per anni suo nume tutelare e socio nella finanziaria Mittel.
In realtà, il campione di bridge sa bene che in questa partita non può vincere. Ma forse spera ancora in un miracolo borsistico. I numeri della crisi Tassara sono infatti tutti appesi all’indice Ftse-Mib. Oggi la holding ha circa 2,3 miliardi di debiti: verso l’Intesa Sanpaolo (1,2 miliardi lordi, 800 milioni netti), l’Unicredit (500 milioni), e poi Bpm, Ubi, Carige, Banco Popolare. All’attivo ha molte partecipazioni che però, nell’insieme valgono oggi poco più di 1 miliardo. Se si rivalutassero...
Il paradosso è che nel 2009, quando Zaleski chiese e ottenne dalle banche la ristrutturazione del debito con una prima moratoria di due anni (poi rinnovata nel 2011), sarebbe stato facile chiudere la partita con vantaggio per tutti grazie al rimbalzo borsistico estivo che riportò il valore del portafoglio sopra la parità dei debiti. Ma il finanziere-giocatore pose il veto. Perché questa è la vera anomalia del caso Tassara: un imprenditore che va in prefallimento chiede l’aiuto delle banche e lo ottiene senza dover cedere potere reale. Ci provasse un qualsiasi signor Rossi, finirebbe sul lastrico in un giorno.
Invece, nell’arrugginito forziere Tassara, si decide con la maggioranza di quattro consiglieri su sei, quindi gli uomini di Zaleski (tre su sei) hanno il veto su tutto. Le banche nel 2009 ottennero di insediare come presidente Pietro Modiano, ex direttore generale dell’Unicredit prima e dell’Intesa poi, nonché presidente della Nomisma e da poco della Sea. La mediazione di Modiano ha sì reso possibile la quotazione della polacca Banca Alior (quotata a 54 zloty, ne vale oggi 90) e la cessione della Edison e di qualche altro asset, ma non lo sblocco di tutte le altre partite incagliate.
A fischiare la fine della ricreazione è stata l’Unicredit, dunque. La ragione va cercata nella storia di Zaleski e delle sue amicizie, che non lambiscono minimamente Federico Ghizzoni. Il banchiere che guida Piazza Cordusio dopo vent’anni all’estero, lontano mille miglia dalle camarille e dalle lobby italiane, non sta facendo alcun distinguo di matrice relazionale nella gestione delle tante pratiche incagliate che ha ricevuto in eredità, al punto che la magistratura torinese impegnata a indagare sui Ligresti scrive: «La nuova gestione dell’Unicredit è intervenuta in modo netto per proteggere la posizione ma chiedendo con inequivocabile chiarezza soluzioni diverse». Non che l’Intesa Sanpaolo di oggi abbia fatto favori al patron della Tassara. Ma negli anni passati indubbiamente Zaleski fu un pilastro di quel polo bresciano vicino a Bazoli che permise al banchiere di controllare il Nuovo Banco Ambrosiano e difenderlo dalle mire espansionistiche di Enrico Cuccia e della Comit, per poi farlo confluire nel gruppo Intesa Sanpaolo. Un amico vero dunque, per Bazoli, che la banca ha sempre sostenuto. Peraltro, per anni e anni guadagnandoci, se si pensa che, solo affiancando la Tassara nell’affaire Edison, l’Intesa intascò una plusvalenza da 200 milioni. Insomma, quella di Zaleski non è una delle tante storie del salotto buono, o degli abbagli sospetti delle banche verso il furbetto di turno. È una storia a sé.
Quando, ingegnere minerario francese di origini polacche, arriva in Italia, nel 1984, ha già all’attivo una vita avventurosa (a cominciare dai mesi a Buchenwald con la madre deportata) e una carriera brillante nella pubblica amministrazione e nella politica francese, dov’era arrivato a fare il tesoriere dell’Udf, il partito dell’ex presidente Valéry Giscard d’Estaing. In Italia sbarca condottovi dal suo successivo mestiere, manager in Africa, in Gabon, in una miniera di manganese del gruppo Comilog, che tra l’altro aveva una partecipazione nella MetalCam, dove viene spedito a gestirla. S’insedia a Breno e si mette a rilanciare l’azienda, comprandosene via via sempre più azioni: una vera passione.
Entra nel salotto buono di Camadini, conosce Bazoli, diventano amici, e lui intanto guadagna e accumula. Coltiva il bridge e la Millemiglia, con l’unica partecipazione blasonata nella Mittel bazoliana e, per suo tramite, nel Nuovo Banco Ambrosiano. Fino al ’96: quando scende in campo (in quel primo caso, peraltro, finanziato dalla Comit) e rastrella il 38 per cento della Falck. Ne uscirà con quasi 300 milioni di plusvalenze. Che reinveste nel colosso francese della siderurgia Arcelor, approfittando così della scalata che su di esso di lì a poco lanciano gli indiani della Mittal: altri 400 milioni di plusvalenza. Infine la Edison, altrettanti guadagni in cassa e, in eredità, un 10 per cento su cui invece il tempo si prenderà la sua rivincita e produrrà minusvalenze di poco inferiori.
Insomma, da una parte Zaleski ha potuto contare sul banchiere forse più autorevole d’Italia, Bazoli, e col suo viatico su tutto il sistema. Dall’altra, anche grazie a una serie di colpi da maestro, si è posto agli occhi dei banchieri come una specie di Warren Buffett, il finanziere americano che non sbaglia un colpo, tanto da totalizzare, in una certa fase, lo 0,7 per cento di tutti gli affidamenti alle aziende industriali italiane! Quando Intesa Sanpaolo (con il gradimento di Bazoli, certo, ma anche con l’autorevole placet del capo azienda Corrado Passera) erogò a Tassara gli ultimi 600 milioni di crediti poco garantiti (che l’istituto ha appena trasferito dalle partite in ristrutturazione a incagli) il patrimonio superava ancora di oltre due volte il totale dei debiti.
Certo, Zaleski usava questi soldi anche per comprare azioni delle banche che lo finanziavano. Però, tolta la fase in cui la Mittel era cruciale per la difesa dell’assetto del Nuovo Banco Ambrosiano caro a Bazoli, mai la Tassara è stata determinante nel controllo di una delle banche di cui era socia. La verità sul credito illimitato di cui ha goduto, e sulla colpevole manica larga con cui le banche gli hanno permesso di gestire l’insolvente Tassara, sta dunque più che altro nella battuta, come sempre rancorosa, di Carlo De Benedetti proprio sul conto di Bazoli e Cesare Geronzi, estendibile a molti loro colleghi: «Non sono mai stati dei banchieri, bensì dei power broker. Geronzi per lo meno ha fatto il direttore di banca, mentre Bazoli si è trovato al Banco Ambrosiano grazie a Beniamino Andreatta ma non sa neanche che cosa sia una banca».