Maria Konnikova, la Repubblica 22/8/2013, 22 agosto 2013
A OGNI SCRITTORE IL SUO RITUALE
Thomas Wolfe amava masturbarsi prima di mettersi a scrivere: diceva che quell’attività lo aiutava ispirando la sua immaginazione e mettendolo nello stato d’animo giusto per scrivere (un «buon impulso maschile», lo definiva). A quanto sembra, anche John Cheever era della stessa idea — tranne che nel suo caso l’attività preferita era il sesso vero e proprio. «Due o tre orgasmi alla settimana dovrebbero andare bene», era solito dire. Per gli scrittori come Mark Twain era della massima importanza l’orario: tra la colazione e le diciassette nessuno aveva il permesso di disturbarlo. In caso di necessità, per attirare la sua attenzione l’interlocutore poteva lanciare un segnale con un corno. Vladimir Nabokov, invece, si preoccupava meno dell’ora e più del procedimento. «La mia tabella di marcia è flessibile», raccontò alla Paris Review, «ma sono alquanto esigente in fatto di strumenti: cartoncini bristol a righe e matite ben appuntite, non troppo dure, corredate di gomma». Patricia Highsmith aveva piena fiducia in un drink bevuto proprio prima di mettersi a scrivere — «per attenuare la sua energia», a detta del suo biografo Andrew Wilson — , mentre Woody Allen preferisce un liquido del tutto diverso per calmarsi: docce lunghe, anche di 45 minuti l’una, perfette per «riflettere a fondo sulle idee ed elaborare una trama».
L’artista eccentrico esiste nell’immaginario collettivo da così tanto tempo da essere diventato uno stereotipo. Nuovi studi in merito, tuttavia, suggeriscono che in queste attitudini e in questi rituali potrebbe esserci qualcosa di più della mera stravaganza: impegnarsi in un rituale prima di dedicarsi alla scrittura potrebbe veramente influenzare la qualità dell’esperienza creativa.
Nel 1983 lo psichiatra Otto van der Hart ipotizzò che i rituali rivestissero
un ruolo importante nell’accrescere il nostro coinvolgimento (o flusso) in qualsiasi attività intraprendiamo. L’anno seguente l’antropologa Linda Bennet e lo psichiatra Steven Wolin indagarono il potere caratteristico dei rituali familiari, sostenendo che contribuissero a definire e plasmare l’identità della famiglia e favorissero il senso di appartenenza, tema più tardi ripreso con interesse dagli studiosi dell’età infantile che li collegarono alla sensazione di benessere che si prova nei primi anni di vita. Nel 1992 l’antropologa Margarte Visser svolse alcune ricerche sui rituali che si accompagnano ai pasti, ipotizzando che queste tradizioni aiutino a stimolare il desiderio e l’apprezzamento del cibo. Più volte gli studiosi hanno ribadito l’importanza dei rituali in campi quanto mai diversi, dalla religione alle prestazioni sportive.
Benché le prove degli effetti dei rituali sulle prestazioni siano solide — in uno studio si è osservato per esempio che prima dei tiri liberi i giocatori di basket che fanno affidamento su una routine identica e reiterata hanno un indice di successo maggiore rispetto a quando non possono seguirla — restano tuttavia poco documentate le prove empiriche.
Un mese fa, tuttavia, un gruppo di psicologi dell’università del Minnesota e dell’Harvard Business School hanno deciso di condizionare in via empirica alcuni comportamenti nei rituali e di osservarne gli effetti sul grado di godimento e di coinvolgimento individuale in varie attività. I ricercatori hanno fatto sì che i partecipanti eseguissero un rituale di persona, osservassero qualcun altro eseguirlo, o si impegnassero in attività random non rituali prima di mangiare cioccolato o carote o di bere limonata. In seguito li hanno interrogati sulla natura dell’esperienza vissuta, chiedendo quanto fosse stata gradevole, in che misura si fossero sentiti coinvolti intensamente in essa e così via. Infine, hanno preso nota di alcuni parametri comportamentali, per esempio calcolando il tempo necessario ad alcuni partecipanti per degustare una barretta di cioccolato.
In ciascuno di questi studi, i ricercatori hanno riscontrato schemi simili. Quando i partecipanti erano impegnati in un rituale preconsumo alimentare di qualsiasi tipo — dallo spezzare una barretta di cioccolato a metà, allo scartarla, al mangiare ciascuna metà separatamente fino a tamburellare con le nocche sul tavolo e chiudere gli occhi prima di mettere in bocca alcune carote in una sequenza ben precisa — precorrevano l’esperienza con maggiore intensità, assaporandola più a lungo e degustandola maggiormente. Gli studiosi hanno riscontrato che il cibo così consumato risultava molto più stuzzicante e che i partecipanti erano disposti, in media, a pagare dai quindici ai venticinque centesimi in più rispetto a quando non avevano l’opportunità di poter eseguire un dato rituale pre-consumo. Se invece si lasciavano andare a gesti non rituali o se osservavano terze persone eseguire un dato rituale, gli effetti empirici scomparivano.
In un esperimento conclusivo, gli psicologi si sono interessati alla motivazione di fondo dei loro risultati, chiedendo che cosa ci fosse di particolare in un dato rituale da rendere così intensa un’esperienza apparentemente semplice come mangiare una barretta di cioccolata o sorseggiare un bicchiere di limonata. La sensazione positiva, una delle prime motivazioni, è stata subito esclusa: non si sono constatate differenze emotive tra i partecipanti che eseguivano i rituali e quelli che non li eseguivano. In verità, la spiegazione è per certi aspetti di gran lunga più semplice: ciò che più conta è l’interesse intrinseco. Quando i partecipanti allo studio eseguivano un dato rituale, sperimentavano un’accentuata sensazione di coinvolgimento e quel coinvolgimento, a sua volta, influiva sull’intera esperienza. Non è così strano, di conseguenza, che nei rituali gli artisti trovino una gratificazione ricorrente e un valore creativo.
Traduzione di Anna Bissanti