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 2013  agosto 17 Sabato calendario

PER 10 SECOLI, L’ESPANSIONE HA SEMPRE BATTUTO IL DECLINO

«Quello che conta, diceva Jean Monnet, non è essere ottimisti o pessimisti, ma essere determinati». Un insegnamento che non dovremmo mai dimenticare perché con l’ottimismo superficiale o il lugubre pessimismo non si va da nessuna parte. Ma è possibile reagire ai tempi bui come quelli che stiamo attraversando, alle difficoltà che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino, senza un briciolo di ottimismo? Basta sfogliare le pagine dei giornali, ascoltare i notiziari delle radio, mettersi davanti alla televisione, per essere sommersi da notizie che non vorremmo mai leggere o ascoltare. Alla fine si ha l’impressione di essere accerchiati da un mondo ostile, che si va degradando ogni giorno di più senza che si scorgano vie d’uscita.
Che oggi siamo assediati da mille difficoltà, che i giovani abbiano prospettive meno rosee di quelle dei loro padri, che la disuguaglianza e la povertà aumenti ovunque, è una verità che nessuno può negare. Dopo anni di intenso sviluppo e di crescita civile, il mondo occidentale, e l’Europa in primo luogo, sta scivolando verso l’intorpidimento. Ma non è forse stato sempre così nelle epoche di transizione, quando costumi, modi di lavorare, consumi quotidiani, mezzi di comunicazione, valori consolidati, istituzioni vengono messi in discussione da mutamenti tanto rapidi da sconcertare chi era abituato a procedere lentamente, lungo binari sicuri, senza essere costretto a salti nel buio come impongono le riforme radicali?
A ben vedere, lo sconcerto e il pessimismo che ci attanagliano nei momenti di difficoltà non sono stati d’animo che ci colgono all’improvviso; sono piuttosto figli di un approccio inadeguato che non ci permette di giudicare realisticamente i problemi che ci stanno di fronte. Tommaso Padoa-Schioppa ha intitolato il suo ultimo, bellissmo libro La veduta corta per ricordarci che se limitiamo il nostro orizzonte al breve periodo non siamo in grado di cogliere la complessità dei processi che stanno sgretolando il vecchio mondo, e non sappiamo perciò trovare risposte adeguate per costruirne uno nuovo. Alla fine è inevitabile che navigando nel buio cadiamo vittima del pessimismo e della paura. Non dobbiamo però dimenticare l’ammonimento del presidente americano Franklin Delano Roosevelt che nel bel mezzo di una crisi peggiore di quella attuale esortò i suoi compatrioti a combattere la rassegnazione con una frase rimasta celebre: “La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.

La prova dei fatti. Le esortazioni aiutano ma non sono sufficienti a restituirci la fiducia nel futuro. Occorrono i fatti, ma occorre anche la convinzione di far parte di una comunità che è stata capace di costruire una società più giusta e più ricca superando anche momenti drammatici. Il patrimonio più solido al quale possiamo attingere l’energia necessaria per contrastare il pessimismo è l’esperienza storica. La Storia, si dice, è maestra di vita. In realtà lo è molto raramente perché, in caso contrario, non ripeteremmo così spesso i medesimi errori. In un libro di memorie sugli anni trascorsi alla Casa Bianca insieme a Richard Nixon, Henry Kissinger ha ricordato che la Storia “non è un libro di cucina che offre ricette già sperimentate”, se non altro perché cambia il contesto degli eventi e i protagonisti non sono più gli stessi. Resta però il fatto che l’esperienza storica è il solo ampio laboratorio al quale attingere per essere illuminati non solo sul passato perché, come ha ricordato un grande studioso olandese, Johan Huizinga, la Storia non è soltanto un ramo del sapere ma “una forma intellettuale per comprendere il mondo”.
Qualche anno fa il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi fece ricorso al classico studio di Carlo M. Cipolla sulla crisi dell’economia italiana nel Seicento per mostrare la sorprendente analogia esistente fra i problemi con cui si scontrarono quattro secoli fa le grandi città manifatturiere della Penisola e quelli incontrati oggi da molte industrie del nostro Paese a causa dell’insufficiente innovazione e, quindi, della scarsa capacità competitiva. Non aveva dunque torto lo storico britannico Richard Lodge quando, nel 1894, scriveva che lo studio della Storia “offre l’unico strumento con il quale l’uomo può comprendere a fondo il presente”.
Come avviarci lungo questo cammino? E fin dove dobbiamo spingerci nell’esplorazione del passato? Si tratta di una questione che non può essere risolta una volta per tutte. La Storia è una catena senza fine nella quale ogni anello si salda con il precedente ed è perciò impossibile individuare una cesura pienamente condivisibile. Quando, ad esempio, studiamo la rivoluzione industriale abbiamo la tentazione di concentrarci sulle innovazioni tecnologiche, sulle ferrovie, sul vapore perché sono i tratti più visibili; poi, allungando il nostro sguardo, scopriamo che un ruolo importante, per alcuni storici decisivo, è stato svolto dall’agricoltura, che le esplorazioni geografiche avevano dato un grande contributo allargando l’orizzonte degli scambi, che nel Medioevo esistevano già le conoscenze tecniche sufficienti per innescare una rivoluzione industriale che però, prima di sbocciare, ha aspettato ancora quattro o cinque secoli. Un’osservazione, quest’ultima, che ha sollecitato nuove domande e nuove risposte.
Un bel dilemma, che nel nostro caso possiamo risolvere così: agli albori dello scorso millennio in alcune aree dell’Europa occidentale prese avvio quella che alcuni studiosi hanno definito “rivoluzione urbana”, non perché le città siano nate allora, esse avevano ormai una storia plurimillenaria, ma perché la loro rinascita coincise con l’avvio di un’età particolarmente dinamica che vide la creazione di nuove istituzioni politiche, una grande espansione dell’artigianato e dei commerci, la liberazione dai vincoli feudali (“l’aria della città rende liberi”, recitava un motto tedesco dell’epoca).
Da allora l’onda lunga dell’economia ha visto succedersi secoli di straordinaria fioritura, epoche di tormentosa trasformazione, periodi di declino e poi, di nuovo, lunghi cicli espansivi. Cercheremo di seguire questo cammino mettendo in luce i vari aspetti dell’economia, i suoi successi e le sue cadute, con la convinzione di poter ricavare motivi di speranza per il domani, non dimenticando, però, l’ammonimento di Jean Monnet: quello che importa “non è essere ottimisti o pessimisti, ma essere determinati”.
1 - continua