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 2013  agosto 17 Sabato calendario

A SORPRESA, SONO I NUMERI A METTERCI SULLA STRADA DELL’OTTIMISMO

Siamo entrati nell’Era del New Normal. La Nuova Normalità del dopo Grande Crisi. È la definizione magica per descrivere il momento dell’economia mondiale che hanno iniziato a usare economisti e politologi. Interessante perché racconta due verità. Primo, che l’emergenza aperta dal disastro finanziario dell’autunno 2008 (crac della banca Lehman) sta avviandosi alla fine: si torna a qualcosa di normale, a una vita (un po’) meno pericolosa. La maggiore crisi dagli Anni 30 del secolo scorso è probabilmente alla conclusione: non poco. Secondo, che la ritrovata normalità è nuova, cioè non siamo tornati al 2007 – in economia e anche nei rapporti tra Paesi – ma stiamo andando verso un equilibrio diverso da quello passato. Due buone notizie, almeno in potenza, dopo quasi cinque anni drammatici. Nel New Normal, però, bisognerà saperci vivere.
Nell’Eurozona, la recessione è finita. Non in tutti i Paesi. In alcuni, quelli del Sud, gli squilibri finanziari potrebbero ancora mettere sotto tensione l’Unione monetaria, con conseguenze negative per il mondo e per loro anche il secondo trimestre del 2013 ha visto le economie contrarsi. In Italia, il Prodotto interno lordo (Pil) è calato per l’ottavo trimestre consecutivo, ma dello 0,2%, a un ritmo inferiore che in precedenza. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ritiene che anche da noi la recessione possa essere finita, dopo due anni di Pil in calo (la più lunga del dopoguerra). Forse già nel periodo luglio-settembre l’economia potrebbe tornare a crescere un po’: vedremo. Non sono però queste variazioni leggere ad accendere la lampadina dell’ottimismo: vista la situazione generale del Paese e le prospettive di una crescita che sarà comunque lenta, il Pil (cioè la ricchezza prodotta in Italia in un anno) non tornerà ai livelli pre-crisi prima degli Anni Venti. A fare sperare, e a dare indicazione sul come il Paese dovrebbe muoversi, sono tre circostanze.

Il nuovo modello cinese. Innanzitutto, la crisi ha cambiato la pelle di quella che si usa chiamare globalizzazione dell’economia. Finora e per due decenni ha preso la forma di aziende occidentali che andavano in Cina, India e in Paesi a basso costo della manodopera ad aprire le fabbriche che chiudevano in America e in Europa. L’Occidente esportava posti di lavoro. Oggi comincia a non essere più così. Non solo perché i salari cinesi sono saliti a livelli a cui non è più vantaggioso produrre in Cina per un’azienda lombarda o dell’Illinois. Soprattutto perché la “fabbrica del mondo” sta velocemente cambiando modello di crescita: non più fondato su investimenti ed esportazioni ma sui consumi interni. Si-
gnifica che già oggi e sempre più in futuro le aziende occidentali vedranno crescere quell’immenso mercato: un’opportunità senza pari. Che non si limiterà alla Cina: l’Ocse calcola che nel 2030 nel mondo ci saranno cinque miliardi di cittadini appartenenti a classi medie, tre miliardi più di quelli di oggi. Le imprese che sapranno sfruttare questa novità storica – l’accesso di enormi masse di popolazione a una buona capacità di spesa – prospereranno. L’Italia è preparata a cogliere l’opportunità?
La risposta classica è no. Ma qui veniamo alla seconda circostanza interessante. Le difficoltà di far impresa in Italia sono note e numerosissime: tasse troppo alte, sistema della Giustizia inefficiente, burocrazia eccessiva, infrastrutture tradizionali e digitali inadeguate, scarsa concorrenza in molti settori e quindi limitazioni all’innovazione. Ciò nonostante, è successo che nel 2012 le esportazioni italiane siano salite del 4,2%, a 474 miliardi, e il governo prevede che possano crescere di un 3,2% quest’anno e di un altro 5,3% nel 2014, a 514 miliardi.
Significa che le aziende italiane esposte alla concorrenza internazionale tutto sommato funzionano, anche se non tutte, superano (a fatica) i problemi della crisi e gli ostacoli strutturali del Paese. Riescono cioè a competere non grazie allo Stato ma nonostante lo Stato. Su questo terreno fertile, qualche riforma seria potrebbe portare risultati consistenti.

La consapevolezza dei problemi. La terza circostanza positiva sta nel fatto che ci si sta rendendo conto, almeno nel dibattito, che i problemi del Paese non si risolveranno con una piccola spending review e con qualche finta riduzione delle tasse ma con riforme profonde. C’è da rivedere un po’ tutto: questo lo sanno anche i politici che non lo dicono. Non significa che, per ciò stesso, le riforme del mercato del lavoro e dei servizi, il ridisegno dell’amministrazione pubblica, il taglio delle imposte si faranno a breve. Vuole però dire che la diagnosi è chiara. Rispetto a Paesi che sono ancora in fase di negazione dei loro problemi strutturali – per esempio la Francia – può essere un vantaggio non indifferente: a favore della creazione di nuove imprese e per evitare che quelle che ancora funzionano entrino in crisi.
Nell’era della Nuova Normalità è però vietato illudersi. Nulla sarà facile. È vero che gli Stati Uniti hanno ripreso a crescere e che Ben Bernanke – il presidente della loro banca centrale, la Fed – ritiene che le politiche monetarie di emergenza possano andare a finire, segno che ritiene la Grande Crisi al tramonto. È vero che i Paesi emergenti continueranno a crescere, anche se a ritmi piuttosto inferiori che in passato.
Sono segni di un New Normal a cui non sarà però facile adattarsi e che, nel prendere forma, potrà anche provocare choc non indifferenti. Inoltre, nella nuova era, sia negli Stati Uniti che in gran parte dell’Europa, la disoccupazione diminuirà lentamente e i consumi non saranno più quelli di un tempo. Sarà un mondo più difficile. Ma con meno illusioni e, se i governi sapranno essere all’altezza (Big If), con radici più solide che in passato. Nella sua ultima intervista data a un giornale prima di morire, nel marzo 2009 al Corriere della Sera, Ralph Dahrendorf predisse che i valori (di case, imprese, beni materiali), gonfiati nei primi Anni Duemila, si sarebbero ridotti del 20%. Il grande intellettuale-politico aveva ragione: tutto un po’ più normale. Non sarà facile, occorre sapersi adattare: ma si può fare.