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 2013  agosto 22 Giovedì calendario

DA STALIN ALLA BANDA DEI QUATTRO, I RITI DI PURIFICAZIONE

Regolamento di antichi conti, apertura di nuove fasi politiche, avvertimento alle fazioni sotterranee, valvola di sfogo delle tensioni interne, offerta di capri espiatori alla popolazione inquieta. Nella storia dei regimi comunisti, specie di quello sovietico staliniano, i grandi processi pubblici ai dirigenti caduti in disgrazia hanno svolto svariate e importanti funzioni, del tutto svincolate dalle accuse — solitamente fasulle, a volte deliranti — rivolte agli imputati.
Sono stati riti di purificazione e di passaggio, dei quali il potere si è avvalso per affermare la propria insostituibilità, ma anche per costruirsi una nuova legittimazione. E senza dubbio lo stesso caso Bo Xilai segnala l’esistenza di conflitti al vertice, nell’ambito di un sistema che ancora rifiuta qualsiasi forma di competizione aperta tra diverse opzioni politiche.
In Cina per la verità del pubblico dibattimento si è spesso fatto a meno. Personaggi di spicco come Peng Dehuai (silurato per le critiche rivolte a Mao Zedong nel 1959), Liu Shaoqi (travolto dalla «rivoluzione culturale» negli anni Sessanta), Hua Guofeng (messo da parte all’inizio degli anni Ottanta dopo essere stato il successore di Mao), Zhao Ziyang (liquidato dopo la strage di piazza Tienanmen nel 1989) sono stati tolti di mezzo senza portarli al banco degli imputati.
C’è però il precedente del processo alla «banda dei quattro», composta dalla vedova di Mao, Jiang Qing, e da altri tre esponenti della fazione più radicale, che era stata protagonista della «rivoluzione culturale». Finirono in manette subito dopo la morte del «grande timoniere», nel 1976. E trascinarli alla sbarra, come avvenne nel 1981, fu l’atto simbolico che metteva una pietra sopra alle turbolenze anarcoidi e alle utopie estremiste: il tribunale ebbe la mano pesante, ma le due condanne alla pena capitale vennero poi commutate in ergastoli.
Fu un processo a chi aveva scatenato le «guardie rosse» contro la burocrazia del partito, quindi implicitamente al Mao dell’oltranzismo rivoluzionario. E segnò una cesura netta nella storia della Cina a favore del riformista Deng Xiaoping, che inaugurava allora l’apertura al mercato.
In Urss, al contrario, i grandi processi si erano svolti in coincidenza con la maggiore destabilizzazione dell’apparato e la più brutale affermazione del potere personale di Stalin, il biennio 1936-38. Alle ondate di esecuzioni sommarie del Grande Terrore si accompagnavano le violentissime requisitorie del pubblico ministero Andrei Vishinsky contro uomini che avevano occupato le cariche più importanti dello Stato sovietico e del Comintern. Prima Lev Kamenev e Grigory Zinoviev, della vecchia guardia bolscevica (agosto 1936), poi i trotskisti ravveduti — ma sempre sospetti — come Yuri Pyatakov e Karl Radek (gennaio 1937), infine Nikolai Bukharin (marzo 1938), il ragazzo prodigio del partito, un tempo alleato di Stalin. Tutti condannati a morte e fucilati tranne Radek, che fu poi ucciso in prigionia.
Mentre ai membri della «banda dei quattro» fu concesso di rivendicare le proprie ragioni, il lugubre copione staliniano prevedeva la confessione degli imputati, indotti ad autoaccusarsi dai loro aguzzini con gli appelli alla ragion di partito, le torture, le minacce rivolte ai loro cari. Si prestarono tutti all’umiliante messa in scena, ma Bukharin, prima evocando la «coscienza infelice» hegeliana per spiegare la sua «doppiezza mentale», poi definendo la confessione dell’accusato «un principio giuridico medievale», cercò di far capire qual era la verità.
Confessarono anche gli imputati dei processi tenuti dopo la guerra nei Paesi del blocco sovietico, dall’ungherese Laszlo Rajk (1949) al ceco Rudolf Slánsk (1952). Nelle loro tragedie di ex combattenti antifascisti si manifestò la volontà staliniana di evitare che qualcuno cercasse di emulare l’eretico jugoslavo Tito. Mentre veniva apertamente alla luce, attraverso l’accusa di «complicità con il sionismo», la deriva antisemita imboccata dal Cremlino. Solo la morte di Stalin, nel marzo 1953, impedì che a Mosca andasse in scena il processo contro la pretesa congiura degli «assassini in camice bianco», che avrebbe probabilmente segnato l’avvio di una generale persecuzione antiebraica.
Con la «destalinizzazione» finirono in Urss i processi ai grandi oligarchi comunisti, anche se proseguì la repressione contro oppositori e ribelli. Sulla forca finirono nel 1958, dopo un dibattimento segreto, Imre Nagy e altri dirigenti del partito ungherese, che avevano aderito all’insurrezione di Budapest di due anni prima. Ma il Pcus di Leonid Breznev non visse mai purghe sanguinose al suo interno. E forse non si trattava di un buon segno, dal punto di vista del potere sovietico: era un sintomo di rilassatezza e stagnazione. Non a caso celebrano processi i regimi comunisti ancora vitali. Cina a parte, anche Cuba ha avuto le sue quattro condanne a morte di dirigenti rei confessi, il più in vista dei quali era il superdecorato generale Arnaldo Ochoa. Avvenne nel luglio 1989: mentre l’impero sovietico scricchiolava, Fidel Castro ostentava anche così la sua determinazione a tener duro.