Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 19/8/2013, 19 agosto 2013
IL CASO LAVORINI, COSI’ L’ITALIA PERSE L’INNOCENZA
Ci vollero otto anni, tre sentenze e un giudice istruttore testardo, per togliere il velo di ipocrisia morbosa dietro a quello che i giornali, in quel 1969 appena iniziato, definivano come la tragica orgia del caso Lavorini. L’Italia perbenista guardava con sospetto agli omosessuali della pineta di Marina di Vecchiano, indicati come i responsabili del primo caso di kidnapping all’italiana. La carta stampata e i tg sdoganarono le parole pedofilia, depravazione, oscenità. Parlarono di “pervertiti di ogni natura, pederasti e procacciatori di ragazzi”. Ma non fu niente di tutto questo il caso Lavorini. Lo sapemmo solo con la sentenza - attenuata, ma definitiva - nel 1977. Fu un omicidio maturato in ambienti di fascisti e monarchici. O, molto più verosimilmente, come scoprirono due giornalisti cocciuti e testardi, gli allora ragazzotti Roberto Bernabò e Corrado Benzio, fu il giardinetto dove nacque la strategia della tensione.
L’ANNO DI DISGRAZIA è appunto il 1969, 31 gennaio. Esattamente un mese prima rimase a terra Soriano Ceccanti, 16 anni, militante di Lotta continua, durante una manifestazione davanti alla Bussola. Ceccanti riaprì gli occhi in ospedale, ma non riuscì più a rialzarsi e a camminare. Adriano Sofri e i suoi avevano iniziato la loro rivoluzione, la polizia iniziò a sparare. Questa era l’Italia che perse l’innocenza. L’autunno caldo annunciato con preavviso, il Sessantotto inteso come decennio che dimostrò di essere appena iniziato, il focolaio di un terrorismo che sarebbe arrivato.
E proprio lì, dove Lotta continua aveva conosciuto le pallottole, un mese dopo e a pochissime centinaia di metri di distanza, scompare un ragazzino. Si chiama Ermanno Lavorini. Di anni ne ha 13. È figlio di commercianti e, nonostante una farlocca richiesta di riscatto di 15 milioni di lire, non torna mai più. Uscì dalla sua casa di Viareggio in bicicletta e non tornò. Una schiera di cronisti, imbeccati da polizia e carabinieri, iniziarono a parlare di una Versilia sommersa, fatta di vizio e sesso. Una storia troppo ghiotta. E abilmente pilotata per distogliere l’attenzione da ben altri guai in corso e in arrivo. Copertine, mostri apparsi e scomparsi, un corpo che non c’è, una polizia che non sa neanche da che parte iniziare le indagini. Si apre la stagione della cronaca nera, le tirature dei giornali aumentano. Ogni giorno nelle case viene riempito il tassello della paura: i bambini non giocano più nei cortili e se lo fanno ci sono madri affacciate alle finestre attente che non si affacci il mostro, il “pervertito”, appunto. E il caso Lavorini di mostri ne confeziona.
Il primo è lo sventurato Adolfo Meciani, 42 anni, grande giocatore di poker, bell’uomo e fama di donnaiolo. Meciani però frequenta anche la pineta, in gran segreto. E ha rapporti con altri omosessuali. Viene arrestato perché tre ragazzi - inutile fare adesso i nomi, ne parleremo alla fine - dicono che Ermanno è stato ucciso nella sua casa. Meciani non regge e si suicida nel carcere di Pisa dopo l’arresto. In galera, col timbro di mostro, finirà anche Giuseppe Zacconi, figlio del grande attore Ermete. È un rampollo, vive in una casa da solo, assistito da un maggiordomo, e sono anni che la città lo indica come “diverso”. Anche lui in carcere. È il mostro? No, verrà rimesso in libertà per morire di lì a un anno di “crepacuore”, dissero.
Manca ancora la politica, ma arriverà presto con le indagini sull’allora sindaco socialista di Viareggio. L’avvocato Renato Berchielli, e il presidente dell’azienda autonoma di soggiorno, Ferruccio Martinetti. Il sindaco si dice fosse stato aiuto regista di Luchino Visconti. Basta e avanza. Poi presentò, con Martinetti, un alibi di ferro. I due persero comunque la faccia e la carriera politica.
Nel frattempo, un maresciallo dell’aeronautica di Pisa trova delle tracce di sangue mentre passeggia col cane sulla spiaggia a Marina di Vecchiano. È il 9 marzo, sono passati 37 giorni dalla scomparsa di Ermanno. Il suo corpo è sotterrato lì. L’autopsia non dirà molto: solo che è morto per soffocamento, è stato picchiato e che il decesso risalirebbe al giorno della scomparsa. Poco ancora per fare luce. Tutto per continuare a mettere sottosopra la pineta e i frequentatori omosessuali. Da Roma vengono spediti a Viareggio quelli che venivano ritenuti come i migliori investigatori. Uno si chiama Mario De Julio, è colonnello dei carabinieri e braccio destro del generale De Lorenzo, capo del Sifar, il servizio segreto militare. Nessuno si sposta dal movente sessuale, non c’è altra ragione per la morte di Ermanno, una storia di miseria e depravazione.
Eppure i tre colpevoli sono proprio lì, sotto il naso di tutti. Si chiamano Marco Baldisseri, un ragazzo sbandato che frequentava la pineta, per soldi, Rodolfo Della Latta, detto Foffo, e Andrea Benedetti, Faccia d’Angelo. Loro, tutti e tre tra i 16 e i 20 anni, hanno ucciso Ermanno, come stabilirono i giudici in primo grado, appello e cassazione.
L’OMOSESSUALITÀ VENNE tirata in ballo solo perché faceva comodo agli inquirenti e ai servizi segreti. Lo sapevano bene al commissariato di Viareggio che avevano imboccato la strada giusta, prima che Roma desse loro il ben servito per affidare le indagini agli investigatori arrivati dalla capitale. I tre ragazzotti erano ben guidati da Pietrino Vangioni, responsabile della sede di un gruppo monarchico aperto e chiuso nel quartiere Marco Polo. È lì che nasce l’omicidio che forse doveva essere un sequestro lampo. È lì, senza nessuna pineta, che matura il giardinetto del depistaggio. Distogliere l’opinione pubblica da quello che accade e dare in pasto ai giornali qualcosa di diverso. Quello stesso anno l’Italia conobbe la strage di piazza Fontana. Il tiro venne alzato. E niente sarebbe stato come prima.