Enrica Brocardo, Vanity Fair 21/8/2013, 21 agosto 2013
BENNY BENASSI: «QUANDO CHIAMA MADONNA»
C’era una volta Ivana Spagna. Anzi, Spagna. Con Easy Lady faceva ballare mezza Europa. Cantava in inglese e ci volle del tempo prima che la gente si accorgesse che era italiana.
Oggi, anzi da un bel po’, c’è Benny (nome vero Marco) Benassi.
«Benny è la versione abbreviata del cognome: è così che mi chiamavano a scuola. Suona bene», dice. Aggiunge: «Anche per gli americani».
Una fortunata coincidenza, considerato che Benassi divide il suo tempo tra Albinea, un paesino a 10 minuti da Reggio Emilia, e l’America. In giro per festival come il Coachella, dove era l’unico italiano sul palco lo scorso aprile. In club come il Marquee dell’hotel Cosmopolitan di Las Vegas, dove si esibisce come «resident dj» ogni mese e mezzo. O negli studi di Los Angeles dove, qualche mese fa, ha inciso un singolo con John Legend, Dance the Pain Away. «Proprio lì, Michael Jackson registrò Thriller», racconta. «Mi hanno fatto vedere la stanza dove teneva la scimmietta».
Io lo incontro a casa sua, una villetta che divide con la compagna Alessandra, farmacista del paese, la figlia adolescente di lei, e il cane. Un bassotto che, a differenza di molti suoi simili californiani, «non va al ristorante».
Considerando le nove ore di fuso orario, più o meno alla stessa ora in cui noi parliamo, a Los Angeles, Kylie Minogue starà provando un pezzo «scritto su una nostra base».
Eppure Benassi non si è montato la testa. E quando dice «nostra» non sta parlando al plurale maiestatis. Semplicemente, fa riferimento al fatto che i Benassi della «ditta», in realtà, sono due: lui e suo cugino Alle (Alessandro), «il vero musicista della coppia».
Partiamo dall’inizio?
«Ho cominciato a fare questo lavoro a 17 anni, prima di partire per il militare».
Mi lasci indovinare: era nella banda dell’esercito.
«No. Però cercai di fare il disc-jockey. A Colle Isarco (in provincia di Bolzano, ndr) c’era una ex caserma convertita in hotel dove andavano tutti i capi dell’esercito. Chiesi di essere assegnato lì, ma ci voleva “una spinta”. Alla fine, presero un ragazzo milanese che il dj non lo aveva mai fatto».
A Reggio Emilia era più facile lavorare in discoteca?
«Era la metà degli anni Ottanta. Qui in giro c’erano tantissimi club, il Marabù, per esempio, una delle prime grandi discoteche italiane, aperta dal martedì alla domenica. Io ero diventato amico del dj di un locale qui vicino, stavo con lui in console. All’epoca un po’ mi vergognavo: i miei compagni di scuola per lo più ascoltavano rock. Un giorno, nel negozietto di musica che frequentavo, mi dissero: “Guarda che c’è un locale sulle colline dove cercano un dj”».
E lei andò.
«Feci il provino con il proprietario del club. Mi fece mixare due dischi. Pensai: “Ma ti pare che posso sbagliare? Li avrò provati cinquecento volte”».
Com’era l’epoca d’oro della disco emiliano-romagnola?
«In giro c’era pieno non solo di locali, ma anche di studi di registrazione, come quello dove lavorava Spagna, che abitava qui vicino. I Black Box, un gruppo che tra gli anni Ottanta e Novanta aveva molto successo, soprattutto in Inghilterra, sono nati qui. C’erano due filoni: la dance e il rock, quel mondo da cui è venuto fuori Ligabue. Me lo ricordo a una festa dell’Unità, non aveva ancora fatto Balliamo sul mondo (che uscì nel 1990, ndr), ma a livello locale era già una celebrità. E Zucchero, ovviamente».
La sua carriera americana come è cominciata?
«Nel 2003 il mio manager disse che c’era l’opportunità di fare serate a New York. “Ma devi viverla un po’ come una vacanza”, mi disse. Un modo “gentile” per dire che non mi avrebbero pagato. Non ero mai stato negli Stati Uniti prima di allora, non avevo soldi per viaggiare».
Ma a fare il dj non guadagnava bene?
«All’inizio, per niente. I ragazzini di adesso la musica la trovano online. Ai miei tempi ogni canzone corrispondeva a un vinile, che costava circa 12 mila lire, 6-7 euro di oggi, e ai locali non potevi presentarti con meno di un centinaio di dischi. Un investimento. Per anni ho dovuto fare altri mestieri per permettermi di lavorare in discoteca».
Tipo?
«Il rappresentante di vernici. E ho lavorato anche in un negozio di dischi. Lì ho imparato parecchio su come funzionava il mercato della musica».
Lei ha prodotto tre canzoni per Madonna. Come si arriva a lavorare con una pop star di quel livello?
«In realtà è Madonna che viene da te, e non viceversa. Lei nasce dalla disco, quindi è facile che “peschi” i suoi produttori in quell’ambiente lì. La prima volta ci chiese di fare un remix di Celebration (album e singolo del 2009)».
Ha mai avuto la tentazione di andarsene per sempre dall’Italia?
«No. Il rischio è perdere il contatto con la realtà. Già così, a volte, mi sembra di vivere in un film. E poi è adesso che bisogna stare in Italia, e combattere tutti insieme per superare la crisi».
Lei, personalmente, come combatte?
«Con il mio lavoro. Portando all’estero non dico la cultura, ma almeno “l’artigianato italiano”. E pagando le mie tasse qui. Tutte».