Silvia Nucini, Vanity Fair 21/8/2013, 21 agosto 2013
KIM ROSSI STUART: ORA CHE SONO PADRE
Antidivo mi è sempre sembrata una parola fessa, un termine démodé affibbiato ad attori rissosi e ad attrici spettinate o che non si depilano le ascelle. Un modo ancora più ostentato di vivere la notorietà. Di antidivi io, in tanti anni di interviste, non ne avevo mai incontrati. C’erano stati quelli più o meno alla mano, più o meno simpatici, più o meno maleducati, ma tutti flirtavano – raggiungendo diversi gradi di sfacciataggine – con la vanità e il successo.
Poi qualche giorno fa, a Parigi, ho incontrato Kim Rossi Stuart. Mi avevano detto che era tanto timido e tanto riservato. Ai minuti 12, 14, 36 e 44 della nostra conversazione dirà che di quella cosa che gli ho chiesto – chiaramente sempre una domanda fondamentale per l’intervista – preferirebbe non parlare. Ma la timidezza, qui, non c’entra nulla. Il suo è, piuttosto, un attacco al sistema, una pulsione ascetica, un tentativo di defilarsi dalle regole del gioco al quale sta giocando da quando, ragazzino, ha cominciato a recitare.
Non risponde alle domande che ritiene troppo personali, non vuole che vengano scritti i marchi degli abiti che indossa nelle fotografie, non desidera che il truccatore gli metta del fondotinta sulla faccia, né che il parrucchiere gli scurisca quei peli bianchi che hanno iniziato a spuntare nella sua barba. Osservando i suoi «no» credo di aver capito che antidivo non è una parolaccia.
Ci incontriamo a Parigi dove ci sono anche Ilaria Spada, la sua compagna, ed Ettore, il loro bambino di quasi due anni. Lo raggiungeranno durante il servizio fotografico. Tutti e tre insieme compongono un quadretto quasi ingiusto, tanto sono belli e tutti reciprocamente innamorati.
Sono in Francia perché lui sta girando una commedia. Ma in Italia lo vedremo dal 3 ottobre in Anni felici, il nuovo film di Daniele Luchetti, storia autobiografica ambientata negli anni Settanta in cui un Luchetti ragazzino assiste alle vicende che ridefiniranno totalmente i suoi rapporti familiari. Rossi Stuart interpreta il padre di Luchetti, Micaela Ramazzotti la madre. «Gli anni Settanta sono stati un’epoca di cambiamenti, di rivoluzione femminile, di libertà espressiva. Il mio personaggio è un artista che, inseguendo la tendenza di allora, abbandona l’arte figurativa per passare a quella concettuale che lui immagina più cool, ma finisce in un mondo intellettualistico, sterile. Il suo fallimento e la sua crisi si ripercuotono sulla famiglia. Non è un cattivo uomo, ma è molto infantile, come tutti noi quando stiamo appresso al nostro ego».
Perché le è piaciuto questo personaggio?
«Ho la sensazione un po’ magica che i personaggi non mi arrivino mai per caso, ma perché in quel momento ho bisogno di esplorare quella particolare parte di me che quel personaggio mette in scena. Non so se sia vero, però a me piace raccontarmela così. Ho sempre pensato al mio lavoro come a qualcosa di più di un lavoro. Forse per quello non amo parlare di me. Vorrei che quello che arriva dallo schermo mi rappresentasse».
Che cosa ha esplorato, questa volta?
«Quello che è toccante di questa storia è che fa capire che ci sono legami per la vita. Tutte le coppie che si fanno delle domande devono arrivare a un compromesso tra cultura e educazione da una parte, realtà e istinto dall’altra. Questo compromesso richiede molta intelligenza e capacità di rispettare gli spazi reciproci».
Amarsi è un po’ una mediazione?
«Facciamo sempre i conti con le regole e le fragilità. Abbiamo tutti provato la difficoltà del convivere, e il gran lavoro su se stessi che impone. Ma ci sono forme di convivenza matura».
Esistono formule non tradizionali di amarsi e stare insieme?
«Io penso che fare una famiglia significhi voler donare al proprio figlio tutta la serenità e la sicurezza possibili. Quando i genitori sono uniti in questo intento, c’è famiglia».
Serenità e sicurezza ci sono solo in una famiglia unita?
«Non necessariamente: ci sono separazioni che fanno stare meglio i figli. Meglio un sano divorzio che una pessima convivenza. Ma tutta questa attenzione per i figli nel film di Luchetti non c’è. Anzi lì c’è un padre – io – che dei figli si disinteressa anche se li ama».
Probabilmente è anche una questione generazionale: i padri di oggi sono molto più presenti.
«C’è di fatto un’inversione di ruoli nella nostra società. Le donne sono fuori casa e gli uomini non disdegnano di fare anche la loro parte».
Lei disdegna? Non ne ha l’aria.
«Io per nulla, mi piace molto occuparmi di Ettore. Ho la fortuna di essere un padre molto presente. Ho amici che escono la mattina alle 7 e rientrano alle 9 di sera: questa per me sarebbe una tragedia totale. Mi piace passare il tempo con lui e osservarlo, adesso che non ha ancora nessun tipo di condizionamento. Io penso che avere a che fare con un figlio, dal concepimento ai due anni, sia avere a che fare con Dio».
Altri figli li vorrebbe?
«È talmente bello».
Adesso che è diventato padre davvero, è cambiato il suo modo di interpretare i padri nei film?
«No, ho fatto molti padri prima di esserlo e potrei non farne più d’ora in poi. Essere diventato padre mi ha cambiato non nella professione, ma nella prospettiva di vita. Inizi a valutare le cose non più pensando che cosa sia meglio per te, ma che cosa lo sia per lui. Ovviamente questo punto di vista nuovo cambia tutto. Ma adesso basta parlare di me. Vorrei non dire niente, vorrei che per me parlassero solo i miei film».
Pensa davvero che un film possa rappresentarla?
«Non lo so, ma so che vorrei che i miei personaggi fossero ciò che si sa di me. Detesto il gossip, trovo che sia profondamente ingiusto, un’invasione. Spesso mi rispondono che ho scelto di fare questo mestiere e la curiosità dovevo metterla in conto. Ma no, io non voglio metterla in conto. La scelta di che cosa io voglio comunicare mi rappresenta».
Che cosa le toglie il raccontarsi?
«Niente, ma ho l’idea che tacere sia più giusto e fruttuoso per quello che rappresenta il cinema, che è una scatola dei sogni. A me piace andare al cinema e farmi completamente catturare dalle vicende di quel personaggio. E non voglio sapere se la moglie dell’interprete lo ha tradito o se gli è morto il gatto».
E perché invece la gente ama conoscere le vite delle persone note?
«Ma non è “la gente”: è la parte peggiore delle persone. Qua, lo ammetto, interviene il mio essere un po’ giudicante. È la televisione che è stata totalmente diseducativa, mentre io penso che dovrebbe avere una funzione altissima, di educazione. Ma qui andiamo a toccare i massimi sistemi, meglio mettere un punto».
Lei è sempre stato così, come dire, rigoroso, quasi ascetico?
«Sono sempre stato alla ricerca di un mio equilibrio. Medito, pur non essendo né buddista né induista. Ho sempre avuto un certo afflato verso la spiritualità. È qualcosa in cui trovo una bella pace».
E come si trova in questo mondo non troppo spirituale?
«Mi pare, invece, che ci sia finalmente una grossa spinta per una consapevolezza diversa. Ci si sta rendendo conto che ci sono tante cose inutili che non ci danno beneficio. Il profitto, la ricchezza economica, che fanno parte del culto di una personalità dominante, cominciano a essere percepiti come sempre più inutili».
È comunista, nel senso filosofico del termine?
«Non mi sono mai messo etichette, non ho mai aderito a una fazione. La mia militanza è sempre stata convogliata nel mestiere: quella era la mia missione».
Lei ha iniziato a recitare da ragazzino. Non crede che questo le abbia tolto un po’ di spensieratezza?
«Sicuramente: la vita ti dà, e dall’altra parte ti sta togliendo. Mi sono immerso in un mondo di grandi quando ero piccolo, cercavo di essere grande come loro e questo era un po’ faticoso. Certi aspetti della giovinezza mi sono mancati, ma poi ho cercato di recuperare su tutto. E tuttora cerco di farlo. C’è chi dice che fino ai 45-50 anni si vive in funzione delle mancanze dell’infanzia. E poi dopo, invece, si dovrebbe cominciare a vivere in maniera più autonoma».
Non li vede anche lei certi sessantenni che fanno paura?
«Sì, certo, è tutto un retaggio di questo consumismo. Io penso che, se si curasse un po’ di più la vita spirituale, anche quest’ansia di apparire sempre giovani passerebbe prima. Penso che quegli uomini non dormano bene la notte perché vivono in un’ansia perenne».
Lei dorme bene la notte?
«Abbastanza. Tranne quando lavoro. Sono un po’ perfezionista e questo mi rende le cose più difficili. Adesso in più sto scrivendo il mio nuovo film, sono a metà della sceneggiatura».
Di che cosa parlerà?
«Racconta del rapporto uomo-donna. E di come questi due pianeti si possono relazionare».
Il che si potrebbe dire del novanta per cento delle sceneggiature...
«Mi rendo conto che è molto generico. Non è che non voglio dire, è che neanche io so raccontarlo bene a me stesso».
Senta, lei non vuole parlare di nulla di privato, ma lo sa che la sua compagna a suo tempo ci rilasciò una bellissima intervista in cui raccontava, con dovizia di particolari, come vi siete conosciuti e innamorati?
«Certo, ma allora era incinta. Io non sono mica incinto oggi».