Laura Anello, La Stampa 21/8/2013, 21 agosto 2013
FRED, IL PICCIOTTO CHE INSEGNA LA MAFIA ALL’UNIVERSITÀ
«Sono stato un picciotto della mafia di Chicago per dieci anni, fino al 1977. Facevo l’autista, lo spicciafaccende, tenevo i contatti con i boss in galera, depistavo i poliziotti. Adesso i gangster li studio, d’altronde è un mondo che conosco molto bene».
Abbozza un sorriso, un po’ ironico e un po’ ferito. Quando ti parla pensi che sia uscito da un film, pronto a tornare dentro lo schermo per riprendere il suo destino cinematografico. Ma Fred Gardaphé, 60 anni, origini pugliesi, pioniere degli studi sulla cultura italo-americana e professore ordinario alla Cuny University di New York, arriva dritto dalla vita vera, fatta di sangue e carne. «Anche troppa», scherza, palpandosi la pancia nella pausa di un corso che ha tenuto a Palermo.
Il basco di traverso, un brillantino all’orecchio, la passione per il tango, lo sguardo fragile e sornione, da trent’anni si occupa della rappresentazione della mafia nella letteratura e nel cinema. Ma nella sua prima vita di quel mondo faceva parte: era uno dei tanti goodfellas, i «bravi ragazzi» del film di Scorsese. «Mio padre, mio nonno, il mio padrino sono stati tutti ammazzati a Chicago. Erano mafiosi di secondo piano legati ai Genovese di New York. Prima, nel 1959, toccò al mio padrino Luigi Fusaro, fatto sparire perché aveva rubato in un club di golf protetto dalle cosche rivali. Quattro anni dopo, nel 1963, fu la volta di mio padre che si chiamava Fred, come me, ucciso a colpi di coltello da un uomo di cui solo pochi anni fa ho saputo il nome, ed è stata una scoperta terribile perché era un amico del mio padrino. Quel giorno, avevo dieci anni, mi fu detto infinite volte che ero diventato l’uomo di casa. Non avendo assolutamente idea di che cosa questo volesse dire, cominciai a imitare gli uomini della mia famiglia».
In realtà era rimasto in vita il capostipite, il nonno, anche lui Fred, che gestiva un banco dei pegni a Chicago. «Gli spararono nel 1966 due neri durante una rapina, e a quel punto rimasi davvero da solo. Con la mia povera mamma che si disperava. Una gran donna, quante ne ha passate…».
Si commuove a ricordare i genitori. Giorni fa a Chicago c’è stata la celebrazione per i cinquant’anni della morte del padre, con la famiglia e i vecchi amici. Un curioso miscuglio di professionisti ed ex picciotti, colletti bianchi e abiti gessati. «Sì, lo so che è stato ammazzato, lo so che era mafioso, ma era mio padre. E nessuno ti può chiedere di rinnegare l’amore per i tuoi genitori. Anche se ho cambiato vita, faccio parte della cosiddetta buona società, so cosa è giusto e cosa è sbagliato, io non nascondo quel che sono stato».
Cioè un picciotto al servizio della famiglia Eboli, da cui lo mandò la madre nel 1967, a 15 anni: l’unica porta cui poteva bussare, l’unico potere che conosceva, anche se le aveva portato via il marito. «Andai a lavorare da Tom Eboli jr, che aveva un magazzino di materiali per ristoranti. Lui era tranquillo, faceva solo affari, con la protezione della mafia che obbligava i locali a rifornirsi da lui. Ma fu con suo fratello, Louis, che conobbi la mafia criminale, quella delle minacce, delle estorsioni. Mi chiese di aiutarlo per arrotondare lo stipendio e diventai un picciotto ai suoi ordini. Di giorno facevo l’impiegato, di sera cambiavo vita».
Mafia di alto livello: i due rampolli erano figli del boss Tommaso Eboli, il manager di pugilato che aveva mosso i primi passi accanto a gente come Lucky Luciano e Vito Genovese. Per dieci anni Fred portò ordini, fece da autista, assistette a pestaggi: «Ma nessun reato grave», racconta, con la faccia di chi conosce il confine sottile tra salvezza e baratro. La svolta nel 1976, quando Tom Eboli jr. gli mise una mazzetta in mano: «Ti dò diecimila dollari. Vai, cambia aria e cambia vita».
Perché? Certo è che l’aria intorno al clan era diventata mefitica, al ritmo dell’ascesa dei rivali Gambino: quattro anni prima avevano fatto fuori il vecchio boss Tommaso a bordo della sua Cadillac mentre usciva di notte da casa dell’amante. Forse quei soldi furono come la buonuscita di un’azienda che non sa dare più futuro ai suoi giovani. O forse un atto di generosità verso un giovane promettente che poteva salvarsi. E Fred cominciò a studiare. Prima la laurea in Education all’Università del Wisconsin, poi quella magistrale in inglese a Chicago nel 1982, e ancora il dottorato nel 1993 con specializzazione sulla letteratura multiculturale. «Fu il mio primo viaggio in Italia, nel Paese di origine di mia madre, a Castellana Grotte, a farmi capire che la mia vita poteva diventare la materia dei miei studi. Che avevo un osservatorio privilegiato per capire come l’immaginario mafioso incida sulla cultura italo-americana».
Adesso Fred Gardaphé è un’autorità assoluta. Padre dei dipartimenti di cultura italo-americana negli States, collaboratore del Calandra Institute, curatore della sezione di Italian American Culture della State University of New York Press, cofondatore e coeditore della rivista «Voices in Italian America». Oltre che scrittore, autore teatrale, sceneggiatore e consulente dei «Sopranos», la serie cult che ha per protagonista il boss mafioso Tony Soprano. Nelle sue parole, vita e cinema si inseguono come in un gioco di specchi. «“Il Padrino” di Coppola? Prima che uscisse il film non c’era neanche un picciotto che volesse venire allo scoperto, dopo è stata una corsa a definirsi mafiosi, tutti a voler assomigliare ai protagonisti del film», racconta. E sorride. Il sorriso di un boss mancato.