Eugenia Tognotti, La Stampa 21/8/2013, 21 agosto 2013
MA I GENI CONTANO PIÙ DELLA DIETA
È difficilmente emulabile, per chi di noi aspira alla quasi immortalità, lo stile di vita del Matusalemme boliviano giunto a 123 anni: vive in una capanna, non conosceva fino a tre anni fa elettricità e acqua corrente, e ha sempre mangiato quel che riusciva a coltivare e cacciare. Alimento base un cereale, il canahua, ricco di proteine e aminoacidi, da secoli componente della cultura alimentare andina.
Carmelo Flores - la cui decrepitezza, nelle foto, evoca gli abitanti dello strano popolo dei Viaggi di Gulliver, i Luggnagg, condannati all’immortalità - entra così nell’elenco del Gerontology Research Group, impegnato, dagli Anni 90, nella ricerca «per rallentare e, alla fine, bloccare il processo biologico e fisiologico dell’invecchiamento umano entro i prossimi 20 anni».
L’impressione però, è che nonostante i progressi delle biotecnologie, ci vorranno ben più di due decenni per vedere scomparire dai certificati di morte le cause più frequenti : scompenso cardiaco, cancro, ictus, broncopneumopatia cronica ostruttiva, diabete, morbo di Alzheimer. Ma quanto incidono sulla longevità i vari fattori, genetica, alimentazione, stile di vita? Gli studiosi dell’invecchiamento parlano di una lotteria alla nascita, di una combinazione di genetica, fortuna, stili di vita. Questi però giocano un ruolo meno importante di quanto comunemente si creda. Le inchieste tra i supercentenari viventi persone con geni speciali che invecchiano più lentamente hanno fornito ben poche indicazioni. Alcuni hanno fumato fino a tardissima età (Jeanne Calmet fino a 117 anni).
Altri sono cresciuti mangiando pancetta fritta nello strutto: quasi tutti, però, hanno in comune antenati longevi. Insomma, non fumare e non bere, controllare la dieta, costringersi all’esercizio fisico, privarsi di parte dei piaceri della vita non basta. La longevità nasconde ancora molti segreti: per conoscerli bisognerà attendere.