Mario Lavia, Europa 20/8/2013, 20 agosto 2013
D’ALEMA, LE VOCI DI DENTRO
«Ho sbagliato ad aver accettato di formare il governo» (Massimo D’Alema, Controcorrente, Laterza, 2013, pag.55). Scorrendo le pagine del diario di Claudio Velardi finora postate dall’autore sui social relative al periodo del governo D’Alema quando egli era nello staff del premier a palazzo Chigi, la primissima impressione è che l’avventura fu contraddistinta da un buon grado di improvvisazione. Si è riflettuto parecchio – lo ha fatto innanzi tutto il diretto interessato – su quella esperienza di governo per certi versi storica (il primo presidente del consiglio ex comunista: fu soprattutto Francesco Cossiga ad esaltarsi per la novità), una vicenda che oggi sembra lontanissima nel tempo, una fotografia ingiallita trovata nel vecchio baule della memoria. E invece non tutto è stato chiarito. Velardi, funambolico protagonista di quella vicenda, qualcosina ce la dice.
Cosa ci dice il primo post
«Venerdì 16 ottobre 1998. D’Alema sta per mollare l’incarico di fronte alla difficoltà di mettere insieme Cossutta e Cossiga. Dopo aver incontrato Caltagirone torno a Botteghe oscure e il quadro si va rapidamente evolvendo. Alle 13 Cossiga dichiara esplicitamente che vuole stare in maggioranza. Da allora la strada è in discesa. Alle 18 e 30 D’Alema va da Scalfaro (gustosi i preparativi, con il prefetto Immelli che arriva a Botteghe Oscure e si fa vedere da tutti i giornalisti, malgrado le mille precauzioni, e D’Alema che raggiunge il Quirinale su una Punto), la sera siamo a casa sua, io, Nicola (Latorre-ndr) e Cuperlo a fare il governo. Sono le 4 e 30 di sabato, comincio a pensare che l’avventura sta partendo. Il mio lavoro, dopo la pausa all’Unità, torna ad essere quello di sempre. È una condanna, un destino, o è quello che in realtà voglio fare?».
Questo è il primo post di Velardi. Nel quale si intravedono già due cose. Una sorta di incertezza personale, che Velardi, malgrado l’irruente vis del suo operare, manifesterà anche dopo, a governo operante, su questo o quel passaggio. Dell’aspetto intimistico della questione qui non rileva, perché il punto politicamente cruciale è un altro: ebbe la forza, D’Alema, di fare quello che si era ripromesso di voler fare? Per ora teniamola a mente, questa domanda.
E poi: negli appunti velardiani si scorge una specie di ritrosia ad affrontare la sfida a viso aperto (ci saranno forse state buone ragioni ma resta emblematica la salita al Quirinale a bordo di un’anonima Punto), un alone di mistero coerente con quello che poi nella vulgata si tradurrà nel complotto, un’attitudine a brigare con movenze cameratesche (a casa di D’Alema «a fare il governo»; e chi poi,? «Io, Nicola e Cuperlo»): insomma, fin dalla sua gestazione, il governo D’Alema pare nascere con una serie evidente di punti interrogativi davanti. Pare gente che si muove su un palcoscenico non conosciuto, nuotatori senza salvagente. Ed è come se i protagonisti lo intendessero, nell’animo, lo ante-vedessero.
La comunicazione, un problema
Il cameratismo dello staff dalemiano è probabilmente tipico di tutti gli staff. È stato notato come quello di D’Alema – i famosi Lothar – sia stato, se non il primo nella storia della sinistra (forse l’inventore fu Achille Occhetto), il più coeso e spregiudicato. Non conosciamo il tenore dei rapporti umani che vi regnasse né se rivalità e gelosie vi abbiano trovato posto e magari il sopravvento. Annota Velardi: «Da giovedì 22 ottobre sono a palazzo Chigi, nell’ufficio più grande. Me lo sono preso fottendolo a Minniti, anche se è eccessivo e scomodo».
E qualche tempo dopo: «Il problema Rondolino. Ha combinato un casino, prima con un’intervista di D’Alema alla Stampa in cui il presidente ha detto cose pazzesche sui suoi colleghi europei, poi con due collegamenti Tv con Lerner e Santoro di cui non si sapeva niente, su ospiti, modalità e quantaltro. Come affrontare il problema? Come sempre, la responsabilità è mia, dice quello. A Rondolino voglio bene, lo copro sempre, ma forse bisogna trovare una via d’uscita, qualche incarico per lui, tipo un sub-commissariato per il Giubileo, che forse è a disposizione».
Già, perché quello della comunicazione si rivelò subito un problema enorme. Velardi in questo era più sensibile degli altri. Capiva che lo scoglio era proprio lui, il premier. Con il quale litiga anche a brutto muso («Ho parlato duro con D’Alema (…) ero andato da lui per parlargli con calma dello staff e del suo funzionamento, mi sono incazzato e gli ho fatto una sfuriata. Mi pare che la abbia accolta comprendendone i motivi».
E poi da queste note risultano evidentissimi due grandi punti critici. Il primo è tutto politico: l’ossessione di Prodi. La paura che il prodismo porti via il Partito. Che la “lista Prodi” prosciughi i Ds. Quando il fondatore dell’Ulivo viene nominato presidente della Commissione europea, Velardi scrive: «Grande risultato di D’Alema, architetto geniale, devo confessare. Prodi in Europa è la svolta: non c’è più il convitato di pietra della politica italiana, l’Asinello è politicamente morto, Veltroni non ha più sponde, il governo D’Alema non ha alternative».
In tempi più recenti, lo stesso D’Alema ha fatto autocritica per certe durezze verso l’uomo che lo aveva preceduto a palazzo Chigi, cosa che conferma che all’epoca dei fatti lui, e ancor di più i suoi collaboratori, si erano messi in testa di ingaggiare con Prodi una guerra senza esclusioni di colpi. Tanto che questa fu per loro una delle preoccupazioni principali, al pari della guerra del Kosovo e della governabilità. Ad una cena – racconta Velardi – «Prodi interloquisce all’inizio, poi s’addormenta. Parisi dice assurdità con l’unico obiettivo di fare la guerra ai suoi amici di sempre, i democristiani Mastella, Cossiga, Mattarella eccetera…». Serata «moscia» che «si ravviva solo nel finale quando torna l’accusa a D’Alema di aver complottato contro Prodi. Lui risponde che in quei giorni stava pensando a Linda e al suo tumore».
Le tempeste interiori
L’altro punto dolente, che in qualche modo si riconnette al primo, è Repubblica. Quel mondo. «Ieri sera, lunedì 22 – scrive Velardi nel diario – ero a cena con Gad Lerner. Ho ricavato impressioni pessime. Penso che lui, insieme a Mauro, Maltese, e forse anche in competizione interna con Rampini, Giannini, etc…, lavorino organicamente contro di noi. La loro tesi è lucida e secca: voi lavorate in totale isolamento, in questo siete davvero craxiani. In più siete degli illusi, pensate di cambiare il mondo e non capite che dovete allearvi con quelli che contano, e soprattutto con Prodi di cui dovete accettare la guida perché è più esperto, più bravo di voi, ha più rapporti con l’Italia che conta e con quella che c’è realmente». Pensate con quale tempesta interiore un dalemiano potesse ascoltare queste parole.
«Siamo autoreferenziali e forse un po’ dilettanti»: Velardi è sempre assillato da questo dubbio di fondo. È quello che i “forti” – il mondo di Repubblica, il prodismo, industriali vecchi e nuovi – rinfacciano a D’Alema: da lungo tempo il problema non è il “fattore K”, è che non ci capite niente, non sapete come va il mondo. Da “figlio di un dio minore” il premier pensa di rispondere con la qualità dell’azione politica, l’abilità, la pazienza, il lavoro (ma altrove Velardi e Rondolino hanno osservato che D’Alema alterna grandi capacità di lavoro a spaventose pause).
Quando arriva sul suo tavolo l’affare Telecom il presidente del consiglio la butta in grande politica con la mistica dei “capitani coraggiosi” in grado di svellere la ruggine del capitalismo italiano. Ma i meccanismi reali, quelli non li padroneggia nessuno, a palazzo Chigi: «La botta che prendiamo su Telecom – annota Velardi – rischiamo di portarcela dietro per lungo tempo, forse per sempre».
Non ce la fece, D’Alema. A palazzo Chigi durò non pochissimo, dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999, e poi ancora, con il D’Alema bis, dal 22 dicembre 1999 al 25 aprile 2000. Non vide subito che la ragione principale della caduta stava nell’insufficienza della cultura di governo della sinistra quanto l’insostenibilità di una coalizione che andava dai comunisti ai seguaci di Cossiga. Come disse molti anni dopo, «quando ero presidente del Consiglio avevo una maggioranza ingovernabile, composta da squilibrati degni di attenzione psichiatrica che mi chiedevano di uscire dalla Nato e di dichiarare guerra agli Stati Uniti. Questo ci ha limitato molto». È vero ma non è tutto, anzi – Velardi condividerà – non è nemmeno la cosa più importante: non furono in grado, i D’Alema boys, a reggere la sfida più difficile, governare per cambiare le cose.