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 2013  agosto 20 Martedì calendario

FEBBRE INDIANA

Doveva essere il cavallo su cui scommettere per il rilancio dell’economia asiatica, ma rischia invece di finire a gambe all’aria. L’India si affaccia su una crisi preoccupante, che potrebbe trascinare con sé quella parte di mondo che, nel momento peggiore della crisi, era riuscita a marciare a un passo nettamente più sostenuto rispetto alla congiuntura globale.
La rupia, la moneta di Nuova Delhi, ha perso il 44% del proprio valore in 24 mesi, a partire dal 2011, ed è scambiata adesso a 63,2 rupie per un dollaro, dopo avere toccato il minimo storico di 61,2 (-12% dall’inizio del 2013). Il mercato azionario è in calo, i prezzi dei bond sono in ribasso con rendimenti vicini al 10%, il deficit delle partite correnti è salito a marzo 2013 a 87,8 miliardi di dollari, un balzo dai 78,2 miliardi dell’anno precedente. Infine, la Banca centrale indiana ha ulteriormente abbassato le stime di crescita per il 2013 e il 2014 al 5,5%: sembra molto all’Europa che timidamente alza la testa dalla recessione, ma per il Subcontinente è il terzo ribasso consecutivo nelle previsioni.
Cosa sta succedendo alla tigre asiatica? Secondo gli analisti il drastico calo della rupia è stato innescato dall’ipotesi, circolata con insistenza durante l’estate, che la banca centrale americana, la Federal Reserve, riveda anzitempo gli stimoli all’economia, rallentando o fermando il proprio piano di acquisto di bond federali da 85 miliardi di dollari al mese. Il timore è che la mossa possa rallentare la crescita americana e, di conseguenza, pesare sulle economie emergenti, le cui esportazioni verso gli Stati Uniti diminuirebbero drasticamente. Non solo. Valute come la rupia sono state finora sostenute dagli investitori a caccia di alti rendimenti, che potrebbero tornare a guardare con interesse al dollaro in caso di giro di vite monetario.
Eccesso di panico? Forse, ma si tratta di un film già noto, e per questo scatena molti timori. Nel 1991, infatti, gli investitori cominciarono a disertare l’India dopo l’assassinio dell’ex primo ministro Rajiv Gandhi e la conseguente instabilità politica. La fuga dei capitali fece da miccia per la crisi che portò al crollo del valore della valuta e al balzo del deficit (dal 9% sul Prodotto interno lordo degli inizi degli Anni ’80 al 12,7% di un decennio dopo). Parallelamente aumentò il debito, che passò dal 35% del Pil alla fine del 1981 al 53%.
Quella che era partita come una forte espansione capace di attirare gli investimenti stranieri e sostenuti flussi di capitale creò una bolla che fece crescere i tassi di cambio, allargò insomma il deficit commerciale e rallentò la crescita, finendo per provocare danni strutturali difficili da superare. Nel bienno tra il 1997 e il 1998 una malattia simile investì anche le potenze del resto dell’Asia, Thailandia in testa. E suonò come un antipasto del ciclone che ha travolto l’intero mondo 10 anni dopo.
A Delhi e nelle capitali finanziarie l’attenzione è ora concentrata su Raghuram Rajan, che il prossimo 5 settembre è destinato ad assumere l’incarico di nuovo governatore della Reserve Bank of India, la Banca centrale del Paese.
Economista con una lunga esperienza alle spalle - è stato anche docente alla University of Chicago, nonché consulente per la Banca mondiale e membro del board della stessa Federal Reserve - Rajan è chiamato a risolvere i problemi strutturali che sono alla radice della debolezza della rupia, dell’alto deficit e di un’inflazione alta e instabile (da aprile 2005 si è attestata a una media del 6,6% l’anno, con un picco dell’11,15% a luglio 2008 e un minimo del -0,4% a giugno 2009).
Il compito non è semplice e i mercati, per il momento, hanno dimostrato scarsa fiducia, con i listini azionari in calo. Gli investitori temono che le misure annunciate a inizio agosto per allentare la pressione sulla valuta indiana, come le nuove restrizioni sui flussi di capitale in uscita e l’aumento dei dazi sulle importazioni di oro, finiscano per alimentare il panico piuttosto che aumentare la stabilità.
Alcuni analisti hanno già bollato le azioni come segnali disperati, quasi un «tentativo estremo di mettere una pezza», come ha scritto il Times of India a una situazione in rapido deterioramento. Il primo ministro Manmohan Singh continua a promettere alla nazione un rapido ritorno a una crescita sostenuta. Ma nessuno sembra più credergli.