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 2013  agosto 17 Sabato calendario

LA CRISI DELLE DEMOCRAZIE MAI COSÌ POCHE DAL 1989

Parafrasando il Manifesto del Partito Comunista su Karl Marx, c’è un curioso spettro che si aggira stavolta non sull’Europa ma sull’intero pianeta: un «problema democrazia» che deriva non dal fallimento di questo peculiare sistema di governo che Winston Churchill definiva come «il peggiore eccettuati tutti gli altri », ma dal suo successo.
Vediamo un attimo a volo d’uccello, in un esame che non pretende di essere esaustivo ma che può dare un’idea. Ovviamente, il punto di partenza è l’Egitto, con la guerra civile scatenata dalla contrapposizione tra una piazza che dopo un anno ha rovesciato un presidente eletto ma mai accettato, e un’altra piazza che adesso cerca di riportarlo al potere con mezzi analoghi. Ma anche la Tunisia e la Libia traballano, mentre in Libano e Iraq esplodono addirittura le bombe. Insomma, mai tanti Paesi arabi come oggi avevano visto il popolo andare al voto in elezioni sostanzialmente corrette, eppure dappertutto dilaga un sanguinoso marasma.
Ma non è solo il mondo arabo. Per lo meno in tre Paesi dove si è votato negli ultimi mesi, dal Venezuela il 14 aprile alla Cambogia il 28 luglio e allo Zimbabwe il 31 luglio, l’opposizione non ha riconosciuto il risultato per asseriti brogli, e continua a contestare i vincitori.
Senza arrivare a quegli estremi, dopo il voto del 23 giugno in Albania è finita a botte; il voto del 12 maggio in Bulgaria non ha fermato una contestazione stile «indignati » che è arrivata a assediare i deputati in Parlamento; in Pakistan il 30 luglio i deputati dell’opposizione hanno boicottato il voto del Parlamento per il nuovo Presidente. In Brasile, stella emergente dei Brics, all’improvviso le piazze si sono riempite di manifestanti. Ma anche nella Turchia di Erdogan, stella emergente dei Civets, era appena successo lo stesso. Più sanguinosa la crisi turca, ma entrambe le situazioni hanno avuto in comune il pretesto apparentemente minore che ha scatenato la contestazione: il progetto di un centro commerciale in un parco in Turchia; un aumento minimo del trasporto pubblico in Brasile. D’altra parte gli «indignati» ormai dilagano da una sponda all’altra dell’Oceano: Portogallo e Cile, Spagna e Costa Rica, Grecia e Perù, Israele e Argentina. E dilagano anche i leader e i movimenti che, a torto o a ragione, mettono paura: Grillo e Marine Le Pen, Wilders e Alba Dorata. D’altra parte il caso Berlusconi, al di là delle possibili riserve sul personaggio, richiama però una serie sempre più ampia di casi di leader politici che dall’ex-Urss all’America Latina e all’Asia, da Yulia Tymoshenko a Thaksin Shinawatra o al kazako Ablyazov, sono stati messi fuori gioco con manovre giudiziarie più o meno pretestuose.
Eppure, mai come oggi la democrazia nel mondo è stata diffusa, e in tanti Paesi i governanti sono stati scelti per lo meno formalmente col suffragio popolare dal basso in presenza di una pluralità di candidati contrapposti. A un quarto di secolo dalla grande ondata del 1989, è quasi passato il principio del pluralismo politico a livello mondiale. Restano come eccezione gli ultimi cinque regimi comunisti del mondo: Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba. Resta l’Eritrea, dove peraltro si ammette che il regime a partito unico è solamente una necessità «provvisoria». Restano le ultime monarchie assolute tra Golfo Persico e Brunei, anche se la maggior parte di esse ha ormai assemblee elettive, sia pure ininfluenti, Perfino l’Arabia Saudita ha permesso elezioni locali che vorrebbero indicare una prospettiva futura di democrazia anche lì: sia pure rinviata a una gradualità estrema. Ma per il resto, l’idea che un governo possa basarsi non sul voto popolare ma sul primato di un’ideologia o sulla legittimità tradizionale è diventato un tabù politico. Come la schiavitù: all’inizio del XIX secolo c’era ancora; alla fine il mondo civile l’aveva bandita, anche se tra Corno d’Africa e Penisola Arabica sarebbe formalmente sopravvissuta fino a XX secolo inoltrato.
Ma la fine della schiavitù formale non vuol dire che non ci siano più situazioni di schiavitù di fatto. Allo stesso modo, il fatto che oggi anche la Siria di Bashar Assad o la Bielorussia di Lukashenko abbiano formalmente accettato il principio della democrazia non vuol dire che questa accettazione sia sincera. Si vota: ma si può imbrogliare il risultato, non accettarlo, cercare di rovesciarlo in piazza, incastrare un avversario in tribunale. Quel che una volta si otteneva con la dittatura aperta adesso lo si cerca di ottenere in modo indiretto, in un contesto di crisi della politica che comunque contagia il mondo intero.